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Celtics: tutti gli strali di Kyrie Irving, l’uomo che voleva essere un leader

di Michele Gibin
Kyrie Irving

La stagione 2018\19 dei Boston Celtics e di Kyrie Irving, una “corsa sulle montagne russe” come definita da coach Brad Stevens, e terminata alla quinta partita di semifinale di conference contro i Milwaukee Bucks, ha avuto una sola costante.

Le parole, le emozioni e gli strali dell’ex giocatore dei Cleveland Cavs.

Kyrie Irving che ha appena terminato la sua peggior serie di playoffs in carriera, una serie giocata “a parte”, al contrario di quanto necessario contro una squadra tutta difesa ed atletismo come i Bucks di Giannis Antetokounmpo. Un Kyrie Irving improvvisatore in attacco (35.2% al tiro, 22.7% al tiro a tre punti, 3.6 palle perse di media in 5 partite), ancora – incredibilmente – più improvvisatore in difesa ed ancora più incredibilmente sfrontato ed orgoglioso tra una partita e l’altra.

I Milwaukee Bucks, superiori in tutto in campo, hanno faticato solo nel comprendere quanto “cotti” mentalmente fossero i Boston Celtics ancora prima di incominciare.

Pochi minuti dopo la fine di gara 5, Terry Rozier ha dichiarato di aver sostanzialmente iniziato da mesi a contare i giorni che lo separavano dalla fine della stagione. Il fiero Marcus Morris ha dichiarato di non avere mai trovato una risposta alle disfunzionalità della squadra. I Celtics si sono appoggiati alla roccia Al Horford, il solo in grado con la sua sola rassicurante presenza di tenere a galla emotivamente i suoi compagni, immersi nella crisi di Gordon Hayward, nelle esitazioni di Jayson Tatum e nell’impazienza dello scalpitante Jaylen Brown.

Sapevo sin da subito che sarebbe stata dura quest’annoCoach Brad Stevens pochi giorni fa a Tim Bontemps di ESPN “Ma già ad ottobre tutte le potenziali difficoltà che avremmo incontrato si sono presentate tutte assieme: si, sarebbe stata durissima“.

Celtics, gli strali i Kyrie Irving

E’ bene ricordare: Kyrie Irving ha giocato due stagioni a Boston, sebbene la portata ed il peso dell’annata appena conclusa abbiano cancellato dagli archivi la stagione 2017\18, finita prima del tempo per un problema al ginocchio sinistro. Con Irving ai box, i giovani Celtics raggiunsero le finali di conference e persero solo alla settima partita contro i “LeBron James Cavaliers”, mostrando al mondo il talento di Jayson Tayum – il nuovo Paul Pierce – di Jaylen Brown e di “Scary” Terry Rozier.

Sulle aspettative che quella sorprendente stagione generò, e sull’assunto che a quel nucleo sarebbe bastato re-introdurre Kyrie Irving e lo sfortunato Gordon Hayward per vincere – seguendo l’enunciato del Principe DeCurtis che “è la somma che fa il totale” – si è scritto e detto tanto.

Ciò che la prima e quieta stagione di Kyrie Irving non aveva suggerito ad alcuno sarebbe però stato il diluvio di pose, dichiarazioni, cambi d’umore e flussi di coscienza a microfoni aperti che avrebbe scandito l’anno II in bianco-verde del campione NBA 2016.

“il mio piano è rifirmare con i Celtics”

Un giocatore di basket è prima di tutto un uomo.

Irving perse la madre Elizabeth quando il ragazzo aveva solo quattro anni. Elizabeth fu adottata da bambina da una famiglia Sioux che viveva nella Riserva di Standing Rock, e la nonna materna ed i bisnonni del giocatore dei Celtics erano di origine Sioux, e lo scorso agosto Kyrie ricevette il grande onore di diventare a tutti gli effetti un membro della grande Nazione Sioux, dopo anni di attivismo ed iniziative di beneficenza a favore della causa Nativa.

Anche sotto tali auspici era iniziato il 2018\19 di Kyrie Irving, che arrivato nell’anno del contratto aveva dichiarato già in ottobre, a due settimane dall’inizio della stagione, come il suo piano fosse quello di rifirmare con i Boston Celtics, l’estate seguente.

“Jaylen Brown e Jayson Tatum devono abituarsi alla pressione”

Pronti, via, ed i Celtics sono subito zoppicanti: Toronto Raptors e Milwaukee Bucks hanno già allungato, mentre Boston non riesce a mettere in serie due vittorie consecutive ed a fine novembre è ferma a 9-7, dopo una sconfitta casalinga contro gli Utah Jazz.

L’attacco Celtics è agli ultimi posti della lega, Jaylen Brown e soprattutto Jayson Tatum faticano ad esprimersi al livello dell’anno precedente (ergo, non sanno dove mettersi, letteralmente). Kyrie Irving cerca di stimolare i giovani compagni, ricordando loro come la pressione mediatica e difensiva nei loro confronti non avrebbe fatto altro che aumentare nei mesi a venire:

L’anno scorso erano ancora così giovani, e date le circostanze nessuno avrebbe preteso da loro ciò che poi sono stati in grado di fare. Quest’anno è diverso, la pressione a cui sono sottoposti tutte le sere se la sono guadagnata, ed è una cosa a cui devono abituarsi. Fare parte di una grande squadra comporta questo

I nostri giovani hanno più talento di tutti” Ancora Irving “Devono imparare a trarne vantaggio“. La sconfitta contro i Jazz sarebbe stata la prima di tre partite perse consecutive.

“Non abbiamo più tempo di aspettare, serve di più”

Una settimana più tardi tocca ai New York Knicks passare al TD garden di Boston, un passo falso che una squadra con ambizioni da contender non può permettersi, nelle parole di Irving: “Non possiamo più aspettare. Da parte mia, dello staff e di tutta la squadra non possiamo più aspettare che i giovani facciano quel definitivo salto di qualità. Dobbiamo migliorare, io compreso“.

Forse non siamo bravi come pensavamo di essere” E’ un amaro Brad Stevens a chiudere il trittico di sconfitte.

“Egoisti in campo, solo il successo di squadra è il successo del singolo”

Alle tre sconfitte segue un periodo brillante, da 8 vittorie consecutive ed un record finalmente “presentabile” di 18 vinte e 10 perse. A metà dicembre i Boston Celtics perdono contro Phoenix Suns e Detroit Pistons, prima dello showdown contro i rivali Milwaukee Bucks del 22 dicembre.

Gli uomini di Mike Budenholzer finiscono per calpestare i Celtics, di nuovo in difficoltà al TD Garden (120-107 il risultato finale). Irving convoca una riunione a porte chiuse per soli giocatori ed all’uscita si presenta ai cronisti come un frustratissimo fiume in piena: “La cosa che dobbiamo capire è questa: non tutti, io per primo, possiamo sempre giocare nel ruolo che vogliamo, tutti i minuti che vorremmo, cose che – egoisticamente parlando – sarebbero l’ideale per me o per un altro. Per quanto mi riguarda, fa parte del processo di crescita (…) si vedono un sacco di giocate personali (…)  ci siamo ritrovati più di una volta a tirare con ancora 16-17 secondi sul cronometro dei 24, prendendo brutti tiri in allontanamento (…) qui potrei fare tutto quello che voglio quando voglio, in campo, ma devo capire che la cosa più importante è aiutare la mia squadra.

Celtics, bene così… anzi no, Jaylen Brown: “Non possiamo continuare a puntarci il dito contro a vicenda”

Se dopo una bella vittoria contro gli Indiana Pacers, un Kyrie Irving garrulo si era permesso di parlare di squadra “diversa, sulla buona strada per diventare una squadra da titolo” e riconosciuto i giusti meriti della sua “tirata” del post-Milwaukee (“dopo la sconfitta contro Milwaukee (…) abbiamo sentito il forte bisogno di affrontare seriamente alcuni problemi. Il meeting post-partita ci è servito per ‘fare aria’ nello spogliatoio“), basta appena tre giorni dopo una nuova sconfitta casalinga all’umorale Kyrie per tornare a vedere tutto nero.

Il 12 gennaio a Boston, gli Orlando Magic passano per 115-113. I Celtics dispongono prima della sirena finale di un ultimo possesso, una rimessa laterale da metà campo. Stevens disegna un gioco per Irving, ma Gordon Hayward, incaricato della rimessa, non passa in emergenza il pallone alla sua point-guard per servire Jayson Tatum.

L’ex Duke Blue Devils sbaglia un tiro difficile, e già mentre il pallone di Tatum è in aria, Irving ha già gettato le braccia al vento, esasperato. L’ex Cavs rimprovera vistosamente Gordon Hayward e Al Horford, ed è irritato con Brad Stevens e la sua scelta di gioco.

Nel post partita, un Kyrie Irving sempre meno in grado di “mordersi la lingua” sfoga la sua frustrazione, stavolta camuffandola (malamente) dal leadership: “L’anno scorso nessuno aveva nulla da perdere e poteva fare quello che voleva, e nessuno gli avrebbe chiesto nulla di più. Quest’anno no, è diverso. Non siamo più a quel punto, i giovani hanno superato quella fase“.

Un atteggiamento – la pratica di dividere la squadra in vecchi e giovani – al quale risponde appena due giorni dopo il “giovane”Jaylen Brown. Con Irving infortunato, i Celtics perdono a Brooklyn la terza partita consecutiva (25-18 il record), ed a fine partita Brown replica velatamente all’ennesima tirata del compagno (“Non mi permetterò più di mettere in discussione i miei compagni pubblicamente. Io voglio solo vincere, maledettamente (…) io sono venuto qui perché credo in questa squadra, e voglio aiutare questi giovani ad avere successo”).

Non è colpa dei giovani, e non è colpa dei veterani” Così BrownE’ colpa di tutti, dobbiamo venirne fuori come una squadra. Abbiamo avuto periodi in cui abbiamo giocato una grande pallacanestro, altri in cui non lo abbiamo fatto per nulla (…)  dobbiamo spalleggiarci l’un l’altro, supportarci. Non possiamo puntarci il dito contro e fare commenti.

Futuro: “Non devo un c***o a nessuno, so cosa devo fare, chiedetemelo il 1 luglio”

In piena frenesia da trade deadline, con i Los Angeles Lakers impegnati a fondo per strappare Anthony Davis ai New Orleans Pelicans, e con i Pels altrettanto impegnati a resistere all’assalto per attendere l’estate, Danny Ainge e – chissà – Jayson Tatum, le promesse di rinnovo di ottobre di Kyrie Irving sono già un ricordo.

A fine gennaio, Irving si era sentito in dovere di telefonare al vecchio compagno LeBron James per scusarsi con lui “di essere stato, all’epoca, quel giovane”, quello che scalpita, che mal sopporta i paternalismi e forse vivere – anche – di luce riflessa. Una telefonata genuina, che dice molto del carattere irrequieto di Kyrie Irving, e che sorprende James (ironicamente a cena con Kevin Love al momento della chiamata), come ammesso dallo stesso LBJ.

E’ il primo febbraio quando Irving risponde così ad una domanda sui suoi proclami di qualche mese prima. La risposta raccolta dai cronisti è molto diversa ma eloquente: “Alla fine, farò solo ciò che sarà meglio per me, io non devo un c***o a nessuno. Richiedetemelo il 1 luglio“.

“Tutti raddoppiano kemba, noi no…”

Le ultime 24 partite di regular season dei Boston Celtics terminano con record di 14-14. Una stagione regolare mediocre per una squadra con tanto potenziale, ma che ogni giorno di più mostra evidente lo scollamento tra comandante (Irving) e truppa.

Il 24 marzo gli Charlotte Hornets in piena lotta playoffs battono i Celtics in rimonta allo Spectrum Center di Charlotte. Gli Hornets sono reduci da una partita da 75 punti segnati a Miami, gara in cui gli Heat avevano sistematicamente raddoppiato e “blitzato” sui pick and roll centrali Kemba Walker.

Pochi giorni dopo, un Walker da 36 punti guida i suoi Hornets alla vittoria per 124-117. L’ex UConn segna 18 punti nel quarto periodo, ed a fine gara Irving critica la scelta di Brad Stevens di non raddoppiare Walker e forzarlo a cedere il pallone: “Probabilmente avremmo dovuto raddoppiarlo di più, togliergli il pallone dalle mani, così come fanno tutte le altre squadre… ma non l’abbiamo fatto. E non è la prima volta“.

“Nessuno può batterci in 7 partite”

Da febbraio, tra Kyrie Irving e la squadra pare essere scesa una poco visibile ma “percepibile” cortina. In marzo, Kyrie fa diversi mea culpa pubblici, in cui dichiara di aver peccato di troppa loquacità e sincerità davanti ai microfoni.

Come reazione uguale e contraria all’atteggiamento dei primi mesi, Irving inizia a manifestare sicurezza (sicumera) nella sua squadra, accennando alla “noia da regular season” e proponendosi quale leader positivo e (più) rilassato (“Fa parte della stagione regolare, nei playoffs quando possiamo concentrarci su una squadra e pianificare tutto, non vedo nessuno che ci possa battere in sette partite“, dopo una sconfitta a Chicago).

Se sono preoccupato? No, perché io sono qui

“Mi hanno portato a Boston per momenti come questi”

Cosa spinge infine un Kyrie Irving che dà in campo la sensazione di pensare già alla sua estate, a fare dichiarazioni sfrontate come quelle del post gara 2 e post gara 4 della serie di semifinale contro i Milwaukee Bucks?

Disillusione, o meglio consapevolezza? Resa? Allora perché, banalmente, “spararle grosse”?

Scenari come questi sono il motivo per cui sono a Boston, i motivi per cui mi hanno portato qui. La pallacanestro è uno sport divertente, soprattutto quando il gioco si fa duro, e bisogna farsi trovare pronti. E’ il periodo dell’anno che aspettiamo per tutta la stagione“. Kyrie Irving pare prendere sotto gamba una prestazione da 4 su 18 al tiro in gara 2, confidando nella capacità sua e dei suoi compagni di poter premere un bottone e riuscire laddove per tutta la stagione i Celtics avevano fallito: uscire dalle difficoltà come una squadra.

Il risultato? Una prevedibile ed orribile serie di tre partite. Definite però da Kyrie Irving come banali “problemi al tiro”: “Ho solo sbagliato tanti tiri, succede. A volte succede e devi accettarlo (…) è difficile trovare ritmo quando sei marcato a tutto campo azione dopo azione… da me ci si aspetta sempre il massimo, sto cercando di creare occasioni per i miei compagni e per me, sfruttando l’aggressività della difesa. 22 tiri? avrebbero dovuto essere 30, sono quel tipo di giocatore“.

Gara 5 della serie si è chiusa con una prova di squadra da 31% al tiro. Il fallimento di ogni (a quel punto) velleità di costruire un sistema offensivo a 3, se non 4 punte (Irving, Tatum, Hayward, Brown\Horford) si è manifestato in 48 minuti in una serie di tiri comodi scagliati nei pressi del ferro, in un primo tempo di uno contro uno “alla rovescia” di colui che, ruolo alla mano, avrebbe dovuto essere la point-guard, il creatore di gioco ed il leader della squadra.

Kyrie ci ha provato, alla sua maniera, l’unica che conosce, ed ha fallito là dove in cuor suo avrebbe voluto avere successo più di ogni altra cosa. Eppure: “Irving cattivo leader? S*******e. Abbiamo accolto Kyrie a braccia aperte ma non abbiamo mai capito, anche se ci abbiamo provato… ma noi non siamo nella sua testa, forse poche persone al mondo sanno davvero cosa c’è in lui“.

Marcus Smart.

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