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NBA Jersey Stories – LeBron James: no more witnesses

di Stefano Belli
LeBron James
Burning 1 LeBron James

LeBron James

La maglia avvolta dalle fiamme che vedete nella foto è una delle più efficaci rappresentazioni dell’impatto avuto sulla cultura sportiva e mediatica dei nostri tempi da uno degli atleti più controversi di sempre, Mr. LeBron James.

Questa casacca è il simbolo di un’era: nacque con l’arrivo di LeBron ai Cleveland Cavaliers nel lontano 2003 e scomparve con il suo clamoroso addio (divenuto poi un arrivederci) in un turbolento 2010.

Dopo che i Cavs ebbero formalizzato la prima scelta più scontata della storia dei draft NBA, chiamando quel diciannovenne di Akron (Ohio) considerato già una superstar grazie ad una partita di HIGH SCHOOL trasmessa in DIRETTA NAZIONALE e ad una copertina di Sports Illustrated (il più famoso magazine sportivo americano) che lo presentava come “The Chosen One”, venne deciso che per il nuovo corso della franchigia si sarebbero inaugurate delle divise più ‘cool’, abbandonando le tanto variopinte quanto (spesso) inguardabili jersey precedenti.

Entrambe le intuizioni (sia quella di marketing che, soprattutto, la scelta del giocatore) si rivelarono decisamente azzeccate; nel giro di pochi anni la maglia numero 23 (scelta da LeBron James come tributo all’idolo Michael Jordan, appena ritiratosi definitivamente) di Cleveland sarebbe stata indossata dai fan di tutto il mondo.

Nelle sue prime stagioni da professionista, LeBron macinò un record dopo l’altro (più giovane di sempre a realizzare 40 punti e a realizzare una tripla-doppia, tra i vari primati), venendo eletto all’unanimità Rookie Of The Year nel 2004. Ben presto la sensazione di trovarsi di fronte al potenziale dominatore della lega divenne quasi una certezza.

La Nike, principale sponsor del giocatore, ideò per lui uno slogan destinato ad entrare ben presto nella cultura pop: We Are All Witnesses (siamo tutti testimoni).

Una gigantografia di King LeBron James intento nel suo più celebre rituale pre-partita (il cosiddetto chalk toss, ovvero il lancio del talco usato per migliorare la presa sul pallone), accompagnata dalla suddetta frase, venne issata nei pressi della Quicken Loans Arena, sede delle gare casalinghe dei wine-and-gold.

Witnesses 4

 

Le strabilianti prestazioni del ‘Prescelto’ non fecero comunque dei Cavs una contender, almeno per i primi anni.

Carlos Boozer, uno dei prospetti più interessanti del gruppo, rinunciò a sorpresa al rinnovo contrattuale per accasarsi agli Utah Jazz, squadra di cui divenne, con Deron Williams, il leader indiscusso.

Attorno al gioiello di Akron la dirigenza faticava enormemente a costruire un roster competitivo. Zydrunas Ilgauskas, Anderson Varejao, Drew Gooden, Eric Snow… tutti ottimi giocatori, ma per vincere, in una lega dominata da squadroni come San Antonio Spurs, Detroit Pistons e Miami Heat, ci voleva ben altro.

Nonostante il basso livello complessivo della squadra, i Cavaliers raggiunsero i playoff nella stagione 2005/06, trascinati da un LBJ in continua ascesa e fresco vincitore del titolo di All Star MVP (anche in questo caso il più giovane di sempre ad alzare il trofeo). La corsa degli uomini del nuovo coach Mike Brown fu però interrotta al secondo turno dalla splendida versione dei Pistons di quegli anni, capaci di raggiungere sei finali di Conference consecutive.

LeBron James, l’ora del riscatto di una franchigia

La stagione successiva fornì a Cleveland la possibilità di riscattarsi.

Dopo aver chiuso la regular season con il secondo piazzamento ad est ed aver raggiunto le Conference Finals, la furia di LeBron si abbattè sugli stessi Pistons.

Detroit vinse le prime due gare della serie, ma i Cavs si aggiudicarono le successive quattro. In gara-5, vinta al doppio overtime, LeBron James chiuse con 48 punti, 9 rimbalzi e 7 assist.

Chiusa la pratica in gara-6, per la prima volta nella sua storia la franchigia dell’Ohio raggiunse le NBA Finals.

Ad attendere LeBron e compagni, però, c’era la corazzata nero-argento dei San Antonio Spurs, guidata dal “generale” Gregg Popovich in panchina e dal trio Tim Duncan-Manu Ginobili-Tony Parker in campo.

Il divario tra le due formazioni si rivelò incolmabile; gli Spurs spazzarono via gli avversari con un secco 4-0, Parker fu eletto MVP delle Finals e per i texani arrivò il quarto titolo NBA. Per il numero 23, invece, solo lacrime e amarezza.

finals 2007

Malgrado la batosta subita, i Cavaliers divennero la squadra da battere sulla East Coast, e LeBron James era ormai il nuovo volto della NBA. Nella stagione 2007/08 conquistò nuovamente il premio di All Star MVP, a cui unì quello di miglior realizzatore della lega.

Le aspiranti rivali, però, prepararono degne controffensive alla supremazia dei Cavs.

Paul Pierce, nell’estate del 2007, aveva chiamato a Boston Ray Allen e Kevin Garnett con l’obiettivo di riportare i Celtics ai gloriosi fasti del passato.

LeBron James James e i ‘Big Three’ si trovarono l’uno di fronte agli altri in un epico secondo turno di playoff, deciso da un’indimenticabile gara-7 disputata sul parquet incrociato del TD Garden.

LBJ ne mise 45, ma i biancoverdi, guidati dai 41 punti di un sontuoso Pierce, riuscirono a staccare il biglietto per le NBA Finals, dove avrebbero poi sconfitto gli eterni rivali Los Angeles Lakers riportando il titolo NBA in Massachussets a 22 anni di distanza dall’ultimo trionfo di Larry Bird e compagni.

Un altra grande delusione, quindi, per James e i suoi ‘witnesses’, alla disperata ricerca di un titolo che a Cleveland si era visto l’ultima volta nel 1964, quando i Browns, guidati dal running back Jim Brown, conquistarono il titolo della National Football League.

L’anno seguente, dopo l’oro olimpico conquistato da LBJ con il Team USA a Pechino, la storia si ripeté.

MVP 2009

LeBron James e i Cavs dominarono a mani basse la regular season; Mike Brown fu eletto Coach Of The Year, la squadra ottenne il miglior record dell’intera lega e LeBron conquistò il suo primo titolo di MVP stagionale.

Ancora una volta, però, i sogni di gloria si interruppero prematuramente, stavolta alle finali di Conference per mano degli Orlando Magic di Dwight Howard, che vinsero in 6 partite nonostante le mostruose prestazioni del numero 23 (38,5 punti di media nella serie, 49 in gara-1, tripla-doppia con memorabile canestro della vittoria in gara-2).

La frustrazione del Prescelto (che tornò negli spogliatoi dopo gara-6 senza fermarsi, come da copione, a salutare gli avversari) era ai massimi storici, mentre si avvicinava inesorabile il momento della free-agency.

La dirigenza, per non indurre in pericolose tentazioni il proprio fuoriclasse, mise sotto contratto nientemeno che Shaquille O’Neal. Sebbene ormai lontano dal dominatore che guidò i Lakers al three-peat ad inizio millennio, il colossale centro poteva ancora fare la differenza tra un’ottima squadra e una squadra da titolo.

A stagione in corso venne aggiunto al roster un All-Star come Antawn Jamison, che con Shaq e l’emergente playmaker Mo Williams (anch’egli All-Star l’anno precedente) andò a formare un ottimo supporting cast per The King.

Anche nel 2010, LBJ e i Cavs fecero incetta di premi per la stagione regolare: di nuovo miglior record NBA e secondo titolo di MVP consecutivo per colui che, insieme a Kobe Bryant, era ormai considerato il miglior giocatore al mondo.

2010

Dopo aver superato in cinque partite i Chicago Bulls della star emergente Derrick Rose, l’ostacolo da superare erano di nuovo i Boston Celtics dei ‘Big Three’ e della formidabile point guard Rajon Rondo. Le due corazzate chiusero le prime quattro gare in parità, ma gara-5 e gara-6 furono dominate dagli uomini di Doc Rivers, che si assicurarono il rematch in finale contro i Lakers.

Per Cleveland ed i Cavaliers era arrivata una nuova, cocente eliminazione.

LeBron James ancora una delusione

La delusione fu bruciante per tutti in Ohio, e qualcosa si ruppe definitivamente. Alcuni tifosi cominciarono addirittura a criticare LeBron James, ovvero il giocatore capace di cambiare per sempre la storia della franchigia.

Il Prescelto, dal canto suo, ebbe la definitiva certezza che con quella squadra, nonostante tutti gli sforzi immaginabili, non avrebbe mai raggiunto il tanto agognato Larry O’Brien Trophy. Arrivò la tanto temuta free-agency.

 

L’estate del 2010 fu una delle più attese di sempre per moltissime squadre, che si affannarono a liberare spazio salariale per accaparrarsi le grandi star in scadenza di contratto.

Primi tra tutti i New York Knicks, che accarezzarono per qualche settimana il sogno di portare King LeBron James nella Grande Mela. Oltre al Re, i free-agent più ambiti quell’anno erano Dwyane Wade, Chris Bosh e Amar’e Stoudemire. Tutti gli affari, però, sarebbero stati sbloccati dalla scelta di LeBron, dato ormai con certezza in partenza dall’Ohio.

Fu così che LBJ, probabilmente mal consigliato, fece la mossa più controversa della sua carriera; avrebbe comunicato la sua nuova destinazione in diretta nazionale, al termine di uno speciale televisivo dal titolo “The Decision”.

L’evento, trasmesso da ESPN, fu uno dei più seguiti della stagione televisiva. Tutto il ricavato dagli sponsor andò in beneficenza, ma in pochi ci fecero caso.

La decision di LeBron, che culminò con la frase “In this fall i’m going to take my talents to South Beach and join the Miami Heat, scatenò contro il nativo di Akron le ire di tutto il mondo del basket.

Primi fra tutti i proprietari delle altre franchigie, che si dissero parecchio infastiditi dal dover aspettare una trasmissione televisiva per poter programmare il futuro. A ruota, grandi del passato come Michael Jordan, che criticò LeBron James per essersi unito a Wade e Bosh (anche quest’ultimo accasatosi alla corte di Pat Riley) invece di provare a batterli, come avrebbe fatto lui.

La reazione più dura, però, fu quella dei tifosi. In tutto il mondo vennero mosse “condanne” nei confronti del ‘Chosen One’, mentre a Cleveland si scatenò il finimondo. Molti tra coloro che avevano idolatrato il grande condottiero, figlio dell’Ohio, uscirono per strada a bruciare le maglie numero 23, simbolo di un’era finita tra mille veleni e senza alcuna gloria.

La gigantografia con lo slogan We Are All Witnesses fu ammainata. L’eroe che aveva trascinato i Cavs fuori dall’ombra era diventato per tutti il Grande Traditore.

Witnesses 3

La ciliegina sulla torta di quella triste vicenda venne messa da Dan Gilbert, proprietario dei Cavaliers, il quale promise al mondo che la sua squadra avrebbe vinto il titolo NBA prima di LeBron James.

A posteriori, possiamo stare certi che Nostradamus continui a riposare sereno; James, Wade, Bosh e gli Heat diedero vita ad un’autentica dinastia, arrivando in finale per quattro stagioni di fila e alzando al cielo il Larry O’Brien Trophy in due occasioni, entrambe con l’ex numero 23 (che in Florida indossò il 6) premiato come Finals MVP.

CLEVELAND, OH - APRIL 16: Kyrie Irving #2 of the Cleveland Cavaliers directs his teammates as he brings the ball up the court against the Brooklyn Nets at The Quicken Loans Arena on April 16, 2014 in Cleveland, Ohio. NOTE TO USER: User expressly acknowledges and agrees that, by downloading and/or using this Photograph, user is consenting to the terms and conditions of the Getty Images License Agreement. Mandatory Copyright Notice: Copyright 2014 NBAE (Photo by David Liam Kyle/NBAE via Getty Images)Per Gilbert e i suoi Cavs, invece, rimase solo la polvere. La pessima stagione successiva all’addio del fuoriclasse (19 vinte e 63 perse) portò comunque alla prima chiamata del draft 2011, che si tramutò nello straordinario playmaker Kyrie Irving.

 Con l’ex allievo di Duke poteva iniziare, a Cleveland, una nuova era.

Nel frattempo la dirigenza, per dare un taglio netto ai dolorosi ricordi del recente passato, decise di abbandonare per sempre le divise che avevano caratterizzato l’era di LeBron James, inaugurando nuove uniformi.

Nell’estate del 2014, a quattro anni dalla fatidica Decision, iniziarono a diffondersi numerose voci secondo le quali il numero 6 degli Heat avesse intenzione di cambiare aria, con la possibilità di tornare proprio a Cleveland.

Improvvisamente tutto l’odio, il rancore e l’amarezza scomparvero, di colpo. Su internet fiorirono gli appelli dei fan, ogni movimento attorno alla vecchia casa di LBJ fu accompagnato dall’isteria collettiva per il tanto atteso annuncio.

I tifosi dei Cavs fecero “risorgere” dalle ceneri le maglie bruciate, mentre Dan Gilbert iniziò a rilasciare dichiarazioni tanto ‘concilianti’ quanto sospette, del tipo “Ognuno di noi commette degli sbagli, io per primo”.

Anche King James si unì al dilagante ‘scurdammoce ‘o passato’ di quei giorni. Nella lettera che accompagnava il fatidico annuncio scrisse:

“Il mio rapporto col Nordest Ohio è più grande del basket. Non lo avevo capito quattro anni fa, ma adesso sì.”

L’11 luglio la vecchia maglia wine-and-gold numero 23 ricomparve in un messaggio dello stesso LeBron, il quale ufficializzò l’attesissima notizia: il Re era tornato, con la missione di portare finalmente Cleveland sul tetto del mondo.

Coming home

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