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NBA Jersey Stories – The Answer – L’era di Allen Iverson

di Stefano Belli
allen iverson

Tutti coloro che si sono affacciati all’universo NBA solamente negli ultimi anni hanno sempre visto i Philadelphia 76ers nei bassifondi della lega, invischiati in un processo di ricostruzione all’apparenza interminabile; i loro fratelli maggiori, però, ricorderanno di certo un periodo in cui questa squadra era una delle più amate, un periodo in cui la maglia numero 3 veniva indossata da milioni di ragazzi in tutto il mondo il motivo era uno ed uno soltanto, Allen Iverson.

Erano gli anni in cui un ‘piccoletto’ venuto dalla strada conquistò una franchigia, una città, l’intera NBA, facendo cose che uno della sua stazza (183 cm per 75 kg) non avrebbe nemmeno potuto permettersi di sognare. Gli anni a cavallo tra i due secoli verranno ricordati anche come l’era di Allen Iverson.

La storia dei Sixers fino ad Allen Iverson

I Sixers non avevano mai indossato i colori che A.I. renderà celebri grazie ai suoi crossover. Con le maglie bianche e rosse, la squadra aveva vissuto diverse epoche gloriose. Negli Anni ’60 Wilt Chamberlain aveva guidato i suoi ad una delle più grandi imprese di sempre: battere i grandi Celtics di Bill Russell e vincere l’unico titolo di quel decennio che non sia finito nella bacheca biancoverde. Dieci anni più tardi, nel 1976, ebbe inizio l’era di ‘Doctor J’ Julius Erving, culminata nel 1983 con l’arrivo di Moses Malone e con la vittoria del secondo titolo NBA (dopo altre tre finali perse), in un’epoca dominata in lungo e in largo da Celtics e Lakers. Dopo il ritiro del Doctor, un giovane Charles Barkley aveva tenuto a galla la squadra, ma la sua cessione ai Phoenix Suns aveva fatto sprofondare Phila in un baratro simile a quello in cui naviga attualmente.

Nel 1996, al termine dell’ennesima stagione disastrosa (18 vittorie e 64 sconfitte), le sorti della franchigia cambiarono drasticamente. Il ruolo di presidente fu assegnato a Pasquale ‘Pat’ Croce, la cui storia merita un breve approfondimento.
Già preparatore atletico dei Philadelphia Flyers della NHL, Croce (di chiare origini italiane) era stato ingaggiato dai Sixers per allenare il centro Shawn Bradley. Non per migliorarne le abilità a rimbalzo o il gioco in post, bensì… per fargli prendere la cintura nera di taekwondo! Una volta riuscito nella sua (fondamentale) impresa, Pat si era guadagnato la stima incondizionata della dirigenza, che (non solo per questo motivo, si immagina) puntò su di lui per ripartire.
Il buon Pasquale, però, avrebbe avuto probabilmente meno successo se dalla draft lottery non fosse uscita la prima scelta assoluta, con la quale i Sixers chiamarono un giovane playmaker destinato a cambiare per sempre la cultura cestistica americana: Allen Iverson, per l’appunto.

Allen Iverson: un ciclone sulla NBA

NBA Draft 1996: Allen Iverson è un nuovo giocatore dei Sixers

NBA Draft 1996: Allen Iverson è un nuovo giocatore dei Sixers

La storia della NBA è purtroppo piena di casi di ragazzi ‘salvati dalla strada’ grazie allo sport, ma la giovinezza di Allen Iverson andò decisamente oltre a questo triste clichè.

Nato nel ghetto di Hampton, Virginia, da una ragazza madre (appena quindicenne) lasciata sola dal compagno, Allen venne cresciuto dal patrigno, Michael Freeman, il quale passò gran parte dell’infanzia del ragazzo entrando e uscendo di galera (“è sempre stato un brav’uomo; semplicemente si arrangiava per poter pagare le bollette” dirà di lui Iverson).
Per fortuna, però, l’encomiabile sistema sportivo americano dà una speranza a chiunque, se c’è il talento.
Di talento, Iverson ne aveva, eccome: eccelleva sia nel football che nella pallacanestro, preferendo però il primo (giudicava il basket “uno sport troppo soft, da ragazzine”). Alla Bethel High School di Hampton, Allen divenne una superstar. Al terzo anno condusse sia la squadra di football, sia quella di basket al titolo statale, venendo eletto in entrambi i casi High School Player Of The Year. Allen era già un leader, una stella assoluta, e come tale era circondato da ‘seguaci’ con cui formava una delle immancabili gang dei ghetti americani.
La mattina del 14 febbraio 1993 scoppiò una violenta rissa tra la crew di Iverson e una banda di ragazzi bianchi (a quanto pare per via di insulti razzisti da parte di questi ultimi), durante la quale Allen colpì una ragazza con una sedia.
Le controversie su quell’episodio furono parecchie; fatto sta che, all’arrivo della polizia, solamente i ragazzi di colore vennero arrestati. Le leggi anti-linciaggio in vigore all’epoca fecero sì che A.I. venisse incriminato per ‘lesioni provocate da una folla’ e condannato a quindici anni di reclusione. Allen si proclamò sempre innocente, ma passò quattro mesi in un penitenziario di Newport News; dopodichè fu scarcerato per insufficienza di prove.
Quella vicenda gettò una pesante ombra sulla vita e sulla carriera di Iverson. I migliori college della nazione, che fino a poco tempo prima avrebbero fatto follie per avere un atleta di quel calibro, non se le sentirono di reclutare un gangsta come lui, tanto talentuoso quanto ‘pericoloso’. La madre Ann riuscì comunque a contattare il coach di Georgetown University, John Thompson, e a fargli incontrare il ragazzo. Thompson fu positivamente impressionato, così Allen divenne un giocatore (di basket) dei Georgetown Hoyas.
Pochi giorni fa, durante il discorso per la sua introduzione nella Hall Of Fame, il primo ringraziamento di Iverson fu proprio per coach Thompson, lì presente, “per avermi salvato la vita”.

Iverson con la maglia dei Georgetown Hoyas

Allen Iverson con la maglia dei Georgetown Hoyas

Nei due anni passati nel sobborgo di Washington, A.I. trascinò i suoi ad un Big East Championship e a due apparizioni nel torneo NCAA, chiudendo con la miglior media punti all-time degli Hoyas.
A quel punto, le sirene del basket professionistico furono troppo forti, per un ragazzo cresciuto nella miseria assoluta. Iverson si dichiarò eleggibile per il draft (lo stesso da cui uscirono Kobe Bryant, Steve Nash e Ray Allen), e Pat Croce fece il suo nome.

Allen Iverson: lo sbarco nella lega

Il primo anno di Allen Iverson nella NBA fu folgorante. La lega si ritrovò all’improvviso tra le mani un giocatore che non aveva mai visto; controllo di palla sensazionale, atletismo straripante per un ragazzo di 1.83 e velocità di esecuzione fuori dal comune. Quello che colpì più di ogni altra cosa, però, fu la personalità con cui il numero 3 si presentava sul terreno di gioco. Uno dei primi tatuaggi di Allen rappresentava un bulldog (mascotte degli Hoyas) e la scritta “The Answer”, soprannome rifilatogli dagli amici ai tempi del college (in quanto “unica risposta possibile all’assenza di grandi stelle NBA”). Un altro recitava “Only the strong survive” (“Solo quelli forti sopravvivono”).
Il burrascoso passato di Iverson si rispecchiava soprattutto nell’atteggiamento di sfida con cui affrontava avversari più grossi e più famosi di lui. A causa del frequente trash talking con cui apostrofava giocatori del calibro di Michael Jordan e Shaquille O’Neal, il playmaker dei Sixers divenne presto uno degli atleti più odiati, anche dal pubblico.
Non il suo pubblico, ovviamente, il quale capì ben presto di avere davanti il futuro della franchigia, la vera e propria ‘Risposta’ a tutti i suoi problemi. 30 punti all’esordio contro Milwaukee, cinque partite di fila con almeno 40 punti (di cui una serata da 50 contro Cleveland), miglior marcatore stagionale della squadra (davanti a Jerry Stackhouse e Derrick Coleman), MVP del Rookie Challenge all’All Star Weekend e Rookie Of The Year 1996/97.
Il vero highlight della prima stagione da professionista di A.I., però, andò in scena il 12 marzo, quando i Chicago Bulls di Michael Jordan fecero visita al CoreStates Center (oggi Wells Fargo Center). Trovatosi faccia a faccia con il suo idolo di sempre, Allen si esibì in uno dei suoi micidiali crossover, perfezionati da anni di playground.

Quel gesto rimane tuttora uno dei momenti che più definiscono la carriera di questo fuoriclasse, e dà un’idea del coraggio misto a sfacciataggine con cui il ragazzo approcciò la sua nuova dimensione.
Insieme alla popolarità, aumentavano anche collane e gioielli, e crescevano le treccine. Con il cambio di look deciso dai Sixers nell’estate del 1997, una vera e propria icona era pronta a sbocciare.

hip-hop-Allen Iverson

Allen Iverson

I cambiamenti, a Philadelphia, non furono soltanto sul piano estetico. Nonostante l’innesto di Iverson, infatti, la squadra chiuse la stagione con un poco onorevole record di 22-60, solamente due vittorie in più dell’anno precedente.
Stackouse fu ceduto ai Detroit Pistons, che in cambio spedirono a Phila Theo Ratliff ed Aaron McKie. A stagione in corso verrà aggiunto al roster un altro giovane di belle speranze: Eric Snow. La mossa più importante, però, fu l’ingaggio come head coach del grande Larry Brown.
Già campione NCAA con Kansas nel 1988, Brown era famoso per essere un tradizionalista. Per lui si poteva anche perdere, ma bisognava giocare “nel modo giusto”, come da dettami tattici da lui imposti. Questa mentalità porterà Brown al successo (qualche anno più tardi con i grandi Pistons), ma inizialmente fece scaturire durissimi contrasti con l’astro nascente dei suoi Sixers, per il quale l’unica “right way” era “my way”.

Che la coesistenza con il nuovo allenatore potesse essere problematica, era abbastanza facile da pronosticare. Iverson, abituato fin dai tempi del liceo ad essere LA star indiscussa, era alquanto reticente a seguire ‘l’autorità’. Veniva spesso accusato di essere estremamente egoista, giocando il più classico degli ‘uno contro tutti’ e mandando su tutte le furie il suo coach. Allen aveva però una caratteristica che a Brown era sempre piaciuta molto: lottava fino alla fine.
I due riuscirono in qualche modo a venirsi incontro e la squadra ne beneficiò. Nel 1998 le vittorie aumentarono ancora (31-51), ma l’anno successivo un Allen Iverson capocannoniere della lega riportò i Sixers ai playoff.
‘The Answer’ arrivò all’appuntamento con la sua prima post-season più carico che mai, guidando Phila ad un clamoroso successo contro gli Orlando Magic di Penny Hardaway. La stagione finì nella serie successiva contro Indiana, ma la carriera di Iverson stava per arrivare al suo picco massimo.

Nella stagione 1999/2000, il numero 3 fu chiamato per la prima volta all’All Star Game, partendo titolare per la Eastern Conference, poi chiuse al secondo posto, dietro all’inarrivabile Shaquille O’Neal, la corsa al titolo di MVP stagionale. Ai playoff, l’ostacolo rappresentato dai Pacers di Reggie Miller si rivelò ancora una volta insormontabile, e Phila fu rimandata a casa di nuovo al secondo turno (dopo aver superato Charlotte al primo).

Iverson e coach Larry Brown

Iverson e coach Larry Brown

Se la squadra faticava a fare il salto di qualità, allo stesso tempo Iverson era ormai un’icona planetaria.
‘The Answer’ rivoluzionò il concetto di dress code in voga fra le stelle NBA; vestiti larghi (sia fuori, che dentro il campo, facendo raggiungere ai calzoncini da gara una lunghezza allora inesplorata), argenteria varia e fascette fecero storcere più di un naso in quel periodo.
Il suo legame con la cultura hip-hop non si manifestava solo nell’abbigliamento; con lo pseudonimo di Jewelz, incise un pezzo rap dal titolo 40 Bars. Pesantemente (e giustamente) criticata per alcune frasi omofobe, la canzone non verrà mai pubblicata.

Coach Brown, però, ne aveva abbastanza. Gli atteggiamenti da star di Iverson, che spesso e volentieri arrivava tardi agli allenamenti (quando non li saltava direttamente), non si potevano più conciliare con la sua visione di pallacanestro. Nell’estate del 2000, Brown chiese alla dirigenza di cedere il giocatore, e il trasferimento fu ad un passo dal compiersi.
A.I. sembrava ormai destinato ai Detroit Pistons, ma il centro Matt Geiger, anch’egli parte della trade, rifiutò la nuova destinazione, facendo così saltare tutto. Iverson rimase dunque a Philadelphia, con buona pace di Brown.

Il coach e il suo miglior giocatore dovettero, volenti o nolenti, trovare il miglior modo per continuare il loro rapporto.
Allen promise a Brown che avrebbe cercato di coinvolgere maggiormente i compagni; in cambio, avrebbe avuto una maggiore libertà sul terreno di gioco. Il patto tra i due funzionò alla grande, e i Sixers innestarono la marcia in più necessaria per arrivare in alto. La spinta definitiva fu l’innesto di Dikembe Mutombo, più volte All-Star con Denver Nuggets e Atlanta Hawks, chiamato per sostituire l’infortunato Theo Ratliff.

Iverson disputò la miglior stagione della sua carriera, premiata con il titolo di MVP (il più basso e più leggero giocatore di sempre a raggiungere questo traguardo). Non fu l’unico trofeo stagionale per ‘The Answer’, che fu anche miglior realizzatore stagionale e MVP dell’All Star Game. In quest’ultima occasione, sollevando il premio, A.I. cercò qualcuno con lo sguardo, poi chiese a gran voce: Dov’è il mio coach? Questo trofeo è per lui”.
Oltre al fuoriclasse in maglia numero 3, a distinguersi furono lo stesso Mutombo, per la quarta volta in carriera miglior difensore dell’anno, e Aaron McKie, incoronato Sixth Man Of The Year. Come ciliegina sulla torta, Larry Brown fu eletto Coach Of The Year per aver guidato i suoi al miglior record ad Est.

Un gesto epico: Allen Iverson nella storia

Quelli del 2001 furono indubbiamente i migliori Sixers dai tempi di Doctor J, e si presentarono ai playoff con la consapevolezza che quello poteva essere l’anno giusto. Dopo aver finalmente sconfitto Indiana, Phila disputò una serie leggendaria contro i Toronto Raptors di Vince Carter. ‘Vincredible’ ed Allen Iverson ingaggiarono un memorabile duello a distanza: ai 54 punti di ‘The Answer’ in gara-2 seguirono i 50 di Carter in gara-3. A.I. rilanciò con altri 52 punti nella quinta partita, Vince replicò in quella successiva mettendone ‘appena’ 39. La serie arrivò a gara-7, dove i 21 punti e 16 assist di Iverson, uniti al tiro decisivo sbagliato proprio da Carter, regalarono il passaggio del turno a Philadelphia.
Superati più agevolmente i Milwaukee Bucks, i Sixers approdarono alle NBA Finals, le prime dal 1983.

NBA Finals 2001: 'The Answer' scavalca Tyronn Lue (Lakers) dopo averlo mandato a terra con un leggendario crossover

NBA Finals 2001: ‘The Answer’ scavalca Tyronn Lue (Lakers) dopo averlo mandato a terra con un leggendario crossover

Gli avversari, però, erano gli invincibili Los Angeles Lakers della ‘premiata ditta’ Jackson-Bryant-O’Neal, che fino a quel momento avevano letteralmente distrutto ogni avversario; 11 vittorie e ZERO sconfitte in tutti i playoff.
Lo scontro era chiaramente impari: da una parte una delle squadre più forti di ogni epoca, dall’altra Iverson, un trentacinquenne Mutombo e dei (seppur validi) comprimari.
Quello che successe in gara-1, perciò, fu un’enorme sorpresa. I 44 punti e 20 rimbalzi di Shaq non bastarono ai Lakers, perché ‘The Answer’ giocò la più celebre partita della sua carriera, mettendone 48 e regalando la vittoria ai Sixers all’overtime. L’immagine-simbolo di quella notte venne scattata subito dopo un incredibile canestro di A.I. il quale, mandato per terra il suo marcatore Tyronn Lue (oggi allenatore dei Cavs), lo ‘scavalcò’ con il solito sguardo di sfida dipinto sul volto.
Lue e compagni trovarono presto il modo di vendicarsi; dalla partita successiva, per gli uomini di coach Brown non ci fu più scampo. Kobe e Shaq (quest’ultimo scontatissimo MVP della serie) dominarono letteralmente i Sixers, chiudendo la pratica con quattro vittorie di fila.

Practice? Allen Iverson leggenda

La stagione successiva, le ambizioni della squadra furono presto ridimensionate dai numerosi infortuni, tra cui quelli di Allen Iverson e di Matt Geiger, con quest’ultimo addirittura costretto a ritirarsi per i continui problemi al ginocchio.
Phila chiuse al sesto posto della Eastern Conference, e venne sorprendentemente eliminata da Boston al primo turno di playoff.
Dopo l’eliminazione, Larry Brown non lesinò critiche nei confronti di Iverson che, a quanto pare, non aveva perso la vecchia abitudine di saltare gli allenamenti. La risposta di A.I. arrivò nel corso di una conferenza stampa, passata alla storia, in cui espresse più volte la sua opinione riguardo agli allenamenti:

L’unico lampo di quella stagione fu il secondo titolo consecutivo di capocannoniere per Iverson. ‘The Answer’ e Mutombo, inoltre, furono tra i protagonisti dell’All Star Game giocato in casa. Quella sera, Allen giocò eccezionalmente con il numero 6, come tributo al leggendario Doctor J.

Per tornare in alto, la dirigenza (rimasta ‘orfana’ di Croce, dimessosi dopo le finali perse) mise sotto contratto Keith Van Horn, fresco finalista NBA con i New Jersey Nets (anch’essi sconfitti dai Lakers).
I risultati, però, non furono esaltanti. Dopo aver ospitato l’ultima partita in carriera di Michael Jordan (con la gara che fu interrotta per diversi minuti per omaggiare il leggendario numero 23), Phila chiuse con il quarto piazzamento ad Est.
Superati i New Orleans Hornets al primo turno (con 55 punti di Allen Iverson in gara-1), i Sixers furono sconfitti in sei gare dai Detroit Pistons.

L’ennesima delusione fu la goccia che fece traboccare il vaso. Larry Brown si dimise, passando proprio ai Pistons, e la squadra si avviò verso un periodo di pura ‘anarchia’.
Il posto di Brown fu preso dall’assistente Randy Ayers, a sua volta sostituito da Chris Ford (entrato nella storia del gioco per aver segnato, nel 1979, il primo canestro da tre punti mai registrato in NBA). Quest’ultimo ingaggiò un durissimo testa a testa con Iverson, che reagì nel modo più deleterio possibile; più volte multato per aver saltato gli allenamenti e per non essersi presentato (senza preavviso) ad una partita dei suoi compagni, A.I. si rifiutò persino di scendere in campo quando, una sera, Ford gli comunicò che sarebbe partito dalla panchina (cosa peraltro normale, dato che Allen stava recuperando da un infortunio).
I capricci e gli infortuni (veri o presunti) di ’The Answer’ condizionarono pesantemente la stagione, e i Sixers furono estromessi dai playoff per la prima volta dal 1997.
Ciononostante, Iverson fu chiamato (come ogni anno) all’All Star Game e prese parte alla spedizione olimpica di Atene 2004. Alla guida di Team USA, A.I. ritrovò Larry Brown. Ancora una volta, però, l’unione tra i due non portò nessun trofeo; gli Stati Uniti furono clamorosamente sconfitti in semifinale dall’Argentina, portando a casa una deludente medaglia di bronzo.

Il pessimo piazzamento della stagione precedente permise ai Sixers di ottenere la nona scelta al draft 2004, con la quale fu selezionato Andre Iguodala, iper-atletica guardia da University Of Arizona.
’Iggy’ fu subito inserito in quintetto dal nuovo coach Jim O’Brien, e trovò una grande intesa con Iverson. Con le alzate di Allen per le schiacciate di Andre, i due A.I. formarono una vera e propria ‘macchina da highlights’.
Il numero 3 recuperò l’entusiasmo perduto; per la quarta volta miglior realizzatore delle lega e per la seconda volta MVP dell’All Star Game, Iverson fu anche inserito nel primo quintetto All-NBA.

Anche grazie all’acquisto di Chris Webber, che a metà stagione lasciò gli amati Sacramento Kings, la squadra tornò ai playoff. Ad attenderla, però, c’erano i campioni in carica Detroit Pistons, che si sbarazzarono degli ex-allievi di coach Brown e continuarono la loro difesa del titolo.

Come tutti gli allenatori passati in quegli anni da Philadelphia, anche O’Brien durò pochissimo. Nell’estate del 2005 fu chiamato al suo posto Maurice Cheeks, uno dei protagonisti (sul campo) del titolo vinto dai Sixers nel 1983.
La stagione 2005/06 (che inaugurò un dress code per gli atleti, voluto dal commissioner David Stern ed aspramente criticato da Iverson) vide il playmaker da Hampton ancora in grande spolvero. I sui 33 punti di media a partita, tuttavia, non bastarono per diventare nuovamente capocannoniere; un certo Kobe Bryant chiuse infatti la regular season a 35.4, forte anche della leggendaria gara da 81 punti contro Toronto.
Anche Iguodala continuava a crescere. Il picco della sua stagione fu l’All Star Weekend 2006; prima fu premiato MVP della partita tra rookie e sophomore, poi fu protagonista di una memorabile gara delle schiacciate, in cui perse in finale contro Nate Robinson.

Iverson con la divisa alternate dei Sixers, utilizzata dal 2001 al 2006

Allen Iverson con la divisa alternate dei Sixers, utilizzata dal 2001 al 2006

Nonostante le prestazioni delle loro guardie, i Sixers non riuscirono a qualificarsi per i playoff, facendo presagire l’imminente fine di un ciclo. A peggiorare ulteriormente le cose, Allen Iverson e Webber si presentarono in grave ritardo ad una Fans Appreciation Night (un prepartita dedicato interamente ai fan), deteriorando di fatto il rapporto con la dirigenza e con il pubblico stesso.
Durante l’estate seguente, appariva ormai certo l’addio delle due grandi star, che invece si presentarono puntualmente al training camp. Era solo questione di tempo, però: ‘The Answer’ si mostrò scontento dei movimenti estivi del front office, minacciando di chiedere il trasferimento. Ormai esasperati, il GM Billy King e soci decisero di liberarsi una volta per tutte della loro stella più luminosa. Il 19 dicembre 2006 finì ufficialmente l’era di Allen Iverson a Philadelphia.

Allen Iverson ai Nuggets

Con la cessione del ‘piccolo grande uomo’ ai Denver Nuggets seguita dalla rescissione del contratto di Chris Webber, per i Sixers era tempo di ricostruire. Iguodala divenne il leader incontrastato della squadra, e per poco non la trascinò ai playoff (i Sixers chiusero noni), grazie anche all’apporto di giocatori come Sam Dalembert, Kyle Korver e Andre Miller (quest’ultimo arrivato da Denver nell’affare-Iverson).

La chiamata di Thaddeus Young al drat 2007 aggiunse un prezioso tassello ai nuovi 76ers, i quali si presentarono al via con un’inedita versione rossa delle divise alternate. A sorpresa, gli uomini di Cheeks riuscirono a tornare ai playoff, centrando l’ottavo piazzamento ad Est. Fu solo una fugace apparizione, visto che Detroit vinse in sei partite, ma a solo un anno e mezzo di distanza dall’addio a ‘The Answer’, la stagione fu un clamoroso successo.
Con l’aggiunta al roster di Elton Brand, già All-Star con Chicago Bulls e Los Angeles Clippers, la dirigenza puntò a migliorare ulteriormente gli ottimi risultati ottenuti.
Malgrado il nuovo acquisto fu fermato dopo pochissimo tempo per un grave infortunio alla spalla, Phila riuscì comunque ad approdare alla post-season, dove fu sconfitta da Orlando in un emozionante scontro al primo turno.

Nell’estate del 2009 la franchigia decise di tornare alle classiche divise bianco-rosse, rese grandi nell’epoca di Julius Erving e Moses Malone.
Le inconfondibili maglie degli anni di Allen Iverson, quelle con cui ‘The Answer’ aveva conquistato un’intera generazione di fan pur essendo il peggiore dei ‘modelli da seguire’, furono abbandonate per sempre.

Trust the Process: una nuova era per i Sixers del post Allen Iverson

Iniziò un lungo periodo di mediocrità, a cui nemmeno il ritorno di Iverson (nella stagione 2009/2010, la sua ultima in NBA) riuscì a porre fine.
Con la disastrosa operazione del 2012, che mandò Iguodala a Denver e portò Andrew Bynum (WANTED) in Pennsylvania, la situazione degenerò ulteriormente, fino a sfociare in questi anni tetri di tanking selvaggio.
Pochi mesi fa, a vent’anni esatti dal draft che diede inizio a tutto, un’altra pallina numero 1 è finalmente uscita dalla lottery, e si è tramutata in Ben Simmons. Che sia l’inizio di una nuova era? Con Embiid, con Simmons, con Fultz ultimo arrivato è iniziata a fase del Trust the Process…

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