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Draymond Green: “Free agency che fine hai fatto?” e attacca il nuovo CBA

di Michele Gibin
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Draymond Green si aspettava una free agency più scoppiettante, e non soddisfatto di quanto ha visto e seguito ha affidato ai social con la promessa (o la minaccia) d’approfondire più avanti col suo podcast, una sua visione della situazione.

Non che la classe 2025 della free agency NBA prevedesse pronti-via chissà quali giocatori di primissima fascia. Ma tra squadre che ristrutturano il proprio salary cap (Celtics), rifondano (Suns, Pelicans) e vanno “all-in” (Rockets, Bucks), di movimenti se ne sono visti eccome. Hanno infatti cambiato squadra via free agency o via trade nomi come Jrue Holiday e Kristaps Porzingis, Myles Turner, Desmond Bane, John Collins, Michael Porter Jr, CJ McCollum, Jordan Poole, Deandre Ayton e persino Damian Lillard e presto Bradley Beal, seppur per percorsi più tortuosi. Per non citare Kevin Durant, vecchia conoscenza di Green e che ha cambiato di nuovo squadra, via trade.

Difficile pensare a cosa Draymond Green si aspettasse di più, se non il totale immobilismo dei suoi Golden State Warriors che come il Romano Prodi di Corrado Guzzanti adottano la strategia del semaforo. Eppure Dray non s’è tenuto.

Me ne sto qui e parlando con mia moglie, resto sorpreso di come la free agency NBA sia già finita” ha scritto Green sui suoi social “E a dire il vero non è mai iniziata. Ci si aspettavano dal 1 luglio fuochi d’artificio come fosse il 4 luglio. Invece si parla di come il nuovo contratto CBA e il second tax apron abbiano posto fine definitivamente alla free agency come la conoscevamo. Vedo solo giocatori che valgono molto di più del loro effettivo mercato e che non comprendono che cosa comportano queste nuove regole. Il che mi fa immaginare quanto sia grande la percentuale dei giocatori che non hanno idea di che tipo di BUSINESS (sic) facciano parte. E io da veterano non posso far altro che osservare giocatori malgestire le loro carriere ancor prima che se ne possano rendere conto“.

Penso sinceramente che dovrei essere il presidente dell’Associazione Giocatori, avrei potuto dare una mano. La NBA è fantastica (…) ed è davvero stupefacente come i giocatori sappiano davvero poco o niente di come funziona e di quali effetti questo ha sulla loro carriera. Ma erano cose che dicevo già prima di questpo CBA. E prima che pensiate che stia parlando di JK (Jonathan Kuminga, ndr), lui ha solo 22 anni, è fortissimo e farà un sacco di soldi, per cui no, non sto parlando di lui“.

Questo il pensiero di Green, in attesa di un ulteriore approfondimento.

Che le nuove regole salariali, votate nel 2023 dalla lega, dai proprietari e dal sindacato giocatori NBPA di cui anche Green fa parte, abbiano cambiato gli scenari, è indubbio. Le limitazioni che il second tax apron (di fatto un hard cap) ha introdotto hanno spaventato le squadre e imposto spending review un po’ ovunque. Pacers, Celtics, persino Suns, Nuggets e Heat alcuni degli esempi. E reso di fatto impossibile se non a costi esorbitanti per le franchigie e i proprietari, mantenere per più di 2-3 anni un nucleo di giocatori di primo e primissimo livello, stimolando dunque l’alternanza tra le squadre vincintrici del titolo e archiviando per il presente almeno, l’epoca delle “dinastie“.

La free agency 2025 sarà ricordata come la prima dell’era del second tax apron, e a farne le spese, checché ne dica Draymond Green, sono i restricted free agent anche di qualità come Quentin Grimes, Cam Thomas, Josh Giddey e Jonathan Kuminga per i quali le squadre interessate non hanno più spazio salariale. Giocatori che saranno costretti probabilmente a accontentarsi di accordi al ribasso con le rispettive squadre, Nets, Sixers, Bulls e Warriors.

La realtà è che a ridimensionare la free agency sia stato non tanto il nuovo CBA (che ha comunque introdotto delle novità), quanto il fenomeno del cosiddetto player empowerment, quella consapevolezza dei giocatori di poter far pesare il proprio valore sul mercato in preponderanza alle esigenze e intenzioni delle proprie squadre. Potere contrattuale nuovo che spinge i giocatori a chiedere più spesso trade e cambi di scenario, sovente anche indicando le nuove destinazioni di preferenza. Oggi i giocatori NBA oltre una certa fascia mediana sanno che per cambiare squadra non occorrerà più attendere la sola free agency, bensì forzare la mano e avanzare le proprie pretese professionali. Da qui la tendenza dei giocatori a firmare più spesso che in passato estensioni pluriennali con le squadre d’appartenenza, sapendo che in un periodo di un paio d’anni potranno sempre fare richiesta di uno scambio.

Regole – e quindi nuovi scenari – cui i giocatori tramite il loro sindacato hanno contribuito a scrivere, quindi accettato e sottoscritto. Dove Draymond Green sbaglia non è certo nel denunciare taluni effetti che il nuovo contratto collettivo di lavoro ha generato, e il 4 volte campione NBA ha assolutamente ragione quando chiede alla propria categoria maggior consapevolezza e conoscenza della materia, dei loro diritti (e doveri) contrattuali e di negoziazione.

Dove Green sbaglia è il considerarsi esterno alla questione, un osservatore. Quando invece da veterano, personaggio carismatico e giocatore di una delle squadre più importanti, se non fosse stato d’accordo all’epoca della ratifica, avrebbe potuto alzare mano e voce. Ma non l’ha fatto.

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