Home NBA, National Basketball AssociationApprofondimentiCamilla Valerio: il basket femminile tra passione, sfide e necessità di cambiamento

Camilla Valerio: il basket femminile tra passione, sfide e necessità di cambiamento

di Carmen Apadula

Camilla Valerio vive il basket a tutto tondo. Da una parte, l’ha conosciuto da vicino come giocatrice, affrontando le sfide quotidiane del parquet, dalla competizione alle dinamiche di squadra. Dall’altra, il suo lavoro come giornalista le ha permesso di osservare lo sport da una prospettiva più ampia, raccontandone le storie e analizzandone le criticità.

In particolare, Camilla ha maturato una profonda consapevolezza delle difficoltà che affliggono il mondo del basket femminile, un ambiente che ancora lotta per ottenere visibilità e risorse adeguate. Dai problemi legati alla scarsa copertura mediatica alle limitazioni economiche che pesano sulle giocatrici e sulle società, il basket femminile si muove in un contesto che richiede sacrifici costanti e un impegno extra per essere valorizzato come merita.

In quest’intervista, Camilla ci accompagna in un percorso attraverso il mondo del basket, mettendo in luce non solo le sfide del settore nel suo complesso, ma anche le difficoltà specifiche vissute dalle atlete. Con un approccio diretto e pragmatico, ci offre spunti di riflessione che nascono non solo dall’esperienza personale, ma anche da un’osservazione attenta e consapevole di ciò che accade fuori e dentro il campo, fino agli spogliatoi.

Un confronto che invita a riflettere, ma soprattutto a immaginare soluzioni per rendere il basket, e in particolare quello femminile, uno sport più inclusivo e forte. Che sia capace di valorizzare chi lo vive ogni giorno.

L’intervista

Quali sono, secondo te, i principali problemi che affliggono il basket femminile in Italia?

È difficile rispondere in breve a questa domanda senza tralasciare aspetti importanti. Se devo proprio scegliere direi che la mancanza di visibilità e una mentalità ancora molto maschilista sono alla base di molte delle difficoltà che abbiamo. Molto spesso si dice che i bassi stipendi e il trattamento che subiamo è frutto del fatto che non veniamo seguite, non c’è pubblico, non ci sono sponsor ecc.. ma l’unico modo per cambiare questo trend è avere visibilità. Parlare del nostro sport, portarlo nelle scuole, promuoverlo a tutti i livelli e farlo vedere ovunque: sui giornali, in televisione, sui social. Dobbiamo trovare un modo per uscire dall’ombra. Dall’estero di arrivano continuamente esempi di come la situazione sta migliorando. La WNBA ha registrato una stagione da record per quanto riguarda il pubblico. In carne e ossa, in televisione e sui social. La partita di calcio femminile tra gli Stati Uniti e Inghilterra giocata a Wembley è stata vista da 74mila spettatori. Questo si ottiene con investimenti, una forte volontà politica e anche una strategia definita. Alla base di tutto ciò però serve un cambio di mentalità, di cultura, nel paese e nelle istituzioni. Investire nel basket femminile e nello sport femminile in generale non può più essere visto come pura beneficienza, ma una scelta strategica che a lungo termine sono convinta pagherà in positivo. Non siamo uno sport minore, siamo atlete al 100%”.

Molte società di basket femminile faticano a sopravvivere, anche e soprattutto economicamente. Quali sono, secondo te, i principali errori gestionali o limiti del sistema?

“Sicuramente non sono la persona più preparata per analizzare questa parte del problema ma quello che noto a livello di sistema è che ognuno guarda il proprio orticello e ragiona a livello strategico su uno spazio temporale di una stagione. Credo che vista la congiuntura economica negativa bisognerebbe unire le forze: società maschili e femminili devono collaborare, non solo per le serie maggiori ma anche per le giovanili, da dove arrivano la maggior parte degli introiti”.

Cosa pensi che le istituzioni sportive, come la FIP, potrebbero fare per sostenere le società femminili e le donne che le rappresentano?

Metterci molte più risorse, avere come obiettivo lo sviluppo del movimento e non gli interessi di pochi, coinvolgere ed ascoltare molto di più la voce di noi atlete anche magari attraverso una rappresentanza diretta all’interno della federazione. L’anno scorso, nel campionato di Serie B dove giocavo (Campania, Puglia, Calabria, Basilicata, Molise, n.d.r.) eravamo 16 squadre. Eravamo molto contente di poter finalmente disputare un campionato competitivo con tante partite diverse, invece si è deciso di dividere il girone in due e di farlo finire a febbraio! Io mi sono esposta pubblicamente su questo come altre mie compagne e amiche ma anche alcune società lo hanno fatto. Abbiamo ottenuto di inserire almeno una seconda fase ad orologio e di terminare ad aprile. Ma questo fa capire che alla base delle scelte non c’è lo sviluppo del movimento e il bene di noi ragazze. Meno giochiamo, meno ci mettiamo in mostra e meno competitivo e divertente diventa il campionato”.


In termini di infrastrutture e programmazione, quali carenze hai riscontrato nella tua esperienza personale?

Sulle infrastrutture le carenze sono totali, nonostante gli sforzi della mia società che è portata avanti da un’autentica guerriera come Angela Somma, presidente che negli anni ha messo tanta passione e risorse personali pur non essendo miliardaria. Fa di tutto per non farci mancare nulla ma è complicatissimo. Anche lei credo abbia ricevuto poche mani tese in generale, per quel che ho visto. Nel palazzetto in cui ci alleniamo a Salerno da più di 10 anni non c’è mai stato il riscaldamento e gli spazi in città sono davvero limitati. E per stare su Salerno non esistono alternative, quindi poi si è obbligati ad accettare situazioni che sono davvero al limite: tipo allenarsi al freddo, alle 21 di sera, come una squadra amatoriale qualunque.  Qualcuno mi ha detto che questo succede a tutti. Premesso che non deve succedere a nessuno e i mancanti investimenti nelle infrastrutture sono un problema generale dello sport in Italia e del Sud particolarmente è chiaro che a parità di categoria, a mio parere ad un’A2 maschile sarebbero state date maggiori attenzioni e agevolazioni. Chi nega questo, disconosce un problema culturale grandissimo”.

Come giocatrice, quali sono state le principali difficoltà che hai affrontato nella tua carriera?

Sicuramente il dover conciliare la vita sportiva con quella professionale. Già partendo dall’università è stato difficile perché non esistevano percorsi di studio pensati per le mie esigenze. Ma spesso anche le società sono state poco concilianti. Ricordo che una volta chiesi ad un allenatore se potevamo spostare di mezz’ora un allenamento così da permettermi di partecipare ad una lezione a cui tenevo molto. Lui mi ha risposto che ero lì per giocare a basket e che queste domande denotavano la mia scarsa dedizione alla pallacanestro. Guadagnavo 600 euro al mese per giocare in A2, allenarmi 8 volte in settimana e l’università dovevo incastrarla dove e come potevo. Questa è un’ingiustizia enorme di cui si parla davvero troppo poco. Ora con le università telematiche le cose sono un po’ migliorate ma quando poi si entra nel mondo del lavoro, le difficoltà sono enormi e la stanchezza totale. Per questo se ci guardiamo intorno l’età media delle giocatrici soprattutto in seria A2 e B è bassa. Sulla soglia dei 30 lasciare non è neanche una scelta, è una necessità dettata dall’impossibilità di conciliare la mole richiesta di lavoro sportivo con il resto. Vivere di basket in Italia è un privilegio di un gruppo molto ristretto di giocatrici, un’élite che, mi dispiace dirlo, spesso non è molto interessata alla sorte di tutte le altre”.

Hai mai percepito discriminazioni o ostacoli specifici legati al genere, sia come atleta sia come giornalista?

Ciò che ho raccontato prima è chiaramente una discriminazione di genere perché se giochi in A2 e sei un uomo, queste situazioni semplicemente non le vivi. Oltre a questo, come atleta ho dovuto sopportare commenti sessisti, se non delle vere e proprie molestie da quando ero una ragazzina. Di atteggiamenti irrispettosi, attenzioni non richieste e commenti sul corpo, l’orientamento sessuale, l’aspetto fisico ecc.. ne potrei raccontare per ore sia per quanto riguarda me, sia le mie amiche e compagne. Una volta un allenatore mi ha chiesto che cosa combinavamo sotto la doccia io e le mie compagne e se il piercing alla lingua me lo ero fatta per partecipare a dei bunga bunga. È il primo esempio che mi è venuto in mente ma alla base c’è una cultura molto irrispettosa che ancora vede nelle donne e nelle atlete corpi sessuali e da sessualizzare. Noi ragazze siamo sempre più consapevoli che tutto ciò è sbagliato e a fatica stiamo sviluppando degli anticorpi: alziamo la voce, non lo accettiamo, ridiamo sempre meno ma questo non basta. Lo sforzo deve essere diffuso e il messaggio deve arrivare anche dall’alto. Mi è capitato tante volte di vedere o sentire persone che ricoprono incarichi di rilievo nelle proprie società e non solo, insultare pubblicamente le proprie giocatrici e avere comportamenti inappropriati: il messaggio che ci arriva è molto chiaro”.

Cosa ti ha spinto a diventare anche giornalista e ad approfondire questi temi legati anche al mondo dello sport?

“È qualcosa che ho maturato nel tempo. Per molto tempo sul piano professionale non avevo voglia di dedicarmi allo sport e in particolare il basket perché ero piena e avevo bisogno di altri stimoli. Man mano che maturavo mi rendevo sempre più conto di quanto fosse importante mettere a disposizione la mia consapevolezza e la mia voce, le nostre più grandi risorse. Parlare e aprire gli occhi nei confronti delle discriminazioni, di ciò che è ingiusto, questo non potrà mai togliercelo nessuno e chi si comporta male si deve sentire anche un po’ minacciato da questa nostra postura. Noi sappiamo cos’è giusto per noi e combatteremo per ottenerlo. Non è facile ma non penso che abbiamo altre vie da percorrere”.

Quali sono state le tue esperienze più significative in tal senso, sia dentro che fuori dal campo?

“Una delle cose che più mi ripaga degli sforzi, del tanto studio e anche del peso mentale di fare quello che faccio è vedere le mie compagne più giovani che mi raccontano le situazioni che vivono e di come si pongono da sentinelle rispetto a tutte le ingiustizie che subiscono a scuola, in campo o per strada. Il dialogo con loro è davvero sempre aperto e in divenire, mi restituisce il senso di quello che cerco di fare ogni giorno”.

Perché secondo te il basket femminile non riesce ancora a ottenere la stessa attenzione mediatica di altri sport, anche femminili, come il calcio?

“Al nostro movimento manca una Sara Gama o una Megan Rapinoe di turno. Una persona o un gruppo di persone/giocatrici che abbiano la voglia, energia e i mezzi quindi lo status per prendere parola e pretendere dei cambiamenti strutturali, contrattuali, culturali ma anche di visibilità. Se guardiamo al calcio, per prendere parola ed essere riconosciute come professioniste, le calciatrici hanno dovuto prima raggiungere risultati straordinari in campo. Le atlete ad oggi hanno ancora bisogno di vincere per sperare di vedersi riconosciuti anche i diritti più basilari ed è quello che non sta succedendo nella pallacanestro femminile. La nazionale è ai minimi storici a livello di risultati e il massimo campionato fatica ad imporsi a livello europeo ma questi momenti di stallo servono per progettare il futuro, porre le basi per immaginare ciò che vogliamo. Partendo dalle basi si potrebbe iniziare dal trasmettere tutte le partite della nazionale e della massima lega in televisione, dall’introdurre dei minimi salariali a partire dalla serie B affinché non si debba sacrificare tempo, energie e salute per davvero due lire (questo alzerebbe il livello di un sacco) e nel favorire investimenti infrastrutturali. Nel mentre però serve anche un lavoro culturale: formazione per allenatori ed allenatrici, dirigenti, genitori e ovviamente le giocatrici su come riconoscere e prevenire le molestie di ogni genere, sul linguaggio inclusivo, sugli strumenti a nostra disposizione per abbattere gli stereotipi e utilizzare lo sport come veicolo di parità e uguaglianza. Infine, credo, che serva anche una presa di posizione da parte della federazione rispetto a coloro i quali si comportano in maniera irrispettosa nei confronti delle atlete. Voltare lo sguardo dall’altra parte non serve, in generale”.

Il divario tra basket maschile e femminile è evidente in molti ambiti: economico, mediatico, e culturale. Da dove pensi che si debba iniziare per ridurre questo gap?

“Oltre a quello che ho detto prima credo che abbiamo bisogno di una presa di coscienza da parte di tutte le atlete e di credere che il cambiamento sia possibile. Quello che sta succedendo in con la stagione dei record della WNBA deve essere da esempio. Tutte dobbiamo essere più attente a pretendere di più a tutti i livelli. Dall’altro credo anche che il basket maschile possa fare di più. Faccio una domanda: quando è stato comunicato che la sezione femminile della Virtus Bologna veniva smantellata, quanti giocatori anche della stessa società si sono esposti? In America i giocatori NBA twittano quasi quotidianamente sullo sport femminile e ne parlano davvero molto spesso, in Italia invece siamo fermi alle frasi paternaliste e al segno rosso sul volto il 25 novembre. Voglio sapere se possiamo ridurre tutto a questo. In Italia, riconoscere il proprio privilegio è un passaggio che molti uomini e quindi molti atleti devono ancora fare o anche solo pensare di poter fare. Minimizzare, sminuire e portare sul piano individuale problemi strutturali è il primo nemico contro il cambiamento. Tanti mi hanno detto che ‘non c’entra essere donne, è il mondo dello sport il problema’. Non che questa cosa sia falsa ma disconosce l’esistenza di una struttura di potere che è quella patriarcale. Le federazioni e i grandi club, su una torta di risorse a disposizione, destineranno al mondo femminile sempre la fetta più piccola. E poi parliamoci chiaro, quanti atleti di A2 possono dire di essere trattati nel modo in cui veniamo trattate noi? Riconoscere il proprio privilegio e metterlo a disposizione della società e del movimento del basket è un’azione che vedo ancora troppo poco. Abbiamo bisogni di giocatori che si espongono su questo che non dicano ‘se per voi c’è meno pubblico è normale che veniate pagate di meno’ e iniziassero a vedersele le nostre partite. A usare le loro piattaforme come megafono e, perché no, a investire. Accettare lo status quo è un modo per rendersi responsabili di ciò che succede. Criticare e fare benaltrismo con chi, esponendosi cerca di cambiare le cose, è la tattica perfetta affinché nulla cambi”.

Credi che ci sia una percezione diversa del talento e delle capacità delle atlete rispetto agli atleti maschi? Come affrontare questa disparità?

Si certo lo credo e lo ripeto sempre: la grossa differenza tra noi e gli atleti è un gap che io chiamerei di ambizione. Fin da quando entriamo nel mondo dello sport, il messaggio che ci arriva è quella di limitare la nostra ambizione, che sognare troppo in grande non serve perché le opportunità sono poche, che vivere di sport è per pochissime, che o sei Diana Taurasi o è meglio che pensi a studiare, a lavorare, a fare qualcosa da femmina, tipo la modella, come mi è stato spesso consigliato!  Per i ragazzi questo è diverso, lo status sociale che acquisiscono nell’essere atleti è completamente diverso, loro sono ‘fighi’ noi siamo ‘quattro lesbiche’. Questa è una grossa differenza che va combattuta con la cultura, la visibilità, la presa di parola e alla fine anche un po’ di coraggio. Il coraggio di sognare che le cose possano essere diverse da come sono nonostante i messaggi contrari che il mondo ci manda tutti i giorni”. 

Il coinvolgimento delle scuole o dei settori giovanili potrebbe essere una leva importante per il futuro: quali progetti credi che potrebbero funzionare meglio?

I settori giovanili non sono un ambiente che conosco così bene e tante cose sono cambiate da quando li frequentavo io che ho più di trent’anni ormai. Ciò che continua a non funzionare o addirittura a peggiorare è sicuramente il reclutamento: troppe poche ragazze giocano a basket e ancora meno al sud. Dobbiamo fare di più nelle scuole e come appetibilità del brand pallacanestro. È vero che ad oggi la competizione è grande, gli sport sono molti e alcuni particolarmente trainanti come la pallavolo ma anche qui non possiamo darci per vinte. L’altro aspetto è la famosa ‘guerra tra poveri’, ovvero la guerra tra società all’interno della stessa città/realtà e per un semplice tornaconto personale, per l’incapacità di mettere un progetto, e le piccole atlete al centro invece che le proprie ambizioni. A Bolzano, la mia città d’origine, ci sono tre società di basket femminile, tre settori giovanili diversi e pochissime ragazze che arrivano pronte per poter fare una carriera nelle prime squadre di B o serie A2.  Da soli si può fare davvero poco, bisogna iniziare a pensare in termini di polisportive, di sinergie, bisogna ingrandire la torta non azzuffarsi per dividersi quella che abbiamo”.

Pensi che i social media e le nuove piattaforme digitali possano essere strumenti chiave per accorciare il gap? In che modo?

“Sicuramente. I social non sono il posto migliore dove discutere e non sono certo il luogo in cui si cambiano le cose ma sono importanti per accendere la miccia, per far parlare di uno sport, per appropriarsi della narrazione sui nostri corpi e le nostre capacità. Il pericolo è che si esaurisca tutto ad un post o un like, ma credo che la vera forza sia unire la dimensione reale a quella dei social media per dare al proprio messaggio e la propria voglia di cambiamento la spinta più forte”.

Se potessi lanciare un appello agli appassionati di sport, quale sarebbe il tuo messaggio per sostenere il basket femminile?

“Prima cosa direi a tutte le persone che amano il nostro sport, di dare una possibilità al basket femminile. Nella mia esperienza chi si è avvicinato, poi si è sempre appassionato. La passione che si può respirare è davvero tanta ed è un’eccezione. L’anno scorso un allenatore delle giovanili mi ha detto ‘i miei ragazzi dovrebbero proprio venire a vedere le vostre partite, giocate troppo bene’. Non so veramente perché poi non l’abbiano fatto e in generale perché i maschi il basket femminile non siano spinti ad apprezzarlo ma penso che anche questo sia parte della nostra cultura. Il femminile è sempre percepito come di nicchia, come qualcosa di minore, di meno importante. Se iniziassimo a portare i ragazzi più giovani a vederci potrebbero veramente cambiare le cose. Quindi cari genitori, portate i vostri figli a vederci giocare! Alle ragazze, alle tesserate dico: alzate la testa sempre, siate caparbie e coraggiose, come il nostro sport ci insegna ogni giorno, verso ogni comportamento che ritenete sbagliato, che vi ferisce e vi scredita come donne e come giocatrici. Potete denunciare anche anonimamente, parlatene con chi ritenete più consapevole su queste tematiche e che vi possa indirizzare. Per chi vuole contattarmi io ci sono, ho voglia di cambiare le cose e di farlo insieme. Nessuna lotta e presa di posizione a favore dell’eguaglianza è una lotta della singola ma è una lotta collettiva che vuole il cambiamento per tutte e tutti”.

Crediti foto: Prospero Scolpini 

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