La NBA non è stata sempre un fenomeno così globale come appare ai nostri occhi. Nel tempo sono stati diversi i giocatori che hanno fatto fatica a farsi rispettare dall’altra parte dell’oceano, rendendo la vita un po’ più facile a quelli che sono arrivati dopo. Volendo analizzare l’impatto che i giocatori non provenienti dagli Stati Uniti hanno avuto sulla evoluzione a livello mondiale della Lega sportiva più conosciuta al mondo, iniziamo questa settimana parlando di Drazen Petrovic, campione croato scomparso tragicamente nel 1993. Nel caso vogliate proporre un giocatore per le prossime puntate di questa rubrica, vi prego di lasciare un commento.
Se volete una storia felice, con un lieto fine, una storia che ti fa dormire bene la notte, chiudete tutto e cercate altrove. La storia di Drazen Petrović è una storia drammatica, una di quelle che ti caricano di rimpianti, di rabbia. Quando un ragazzo con una competitività e un talento così straordinari si spegne a soli 28 anni, a causa di un incidente automobilistico, tutti gli appassionati di basket, tutti gli amanti dello Sport perdono qualcosa di importante. In quel maledetto incidente abbiamo perso uno dei pionieri della NBA, una delle stelle più luminose del basket mondiale. Un ragazzo che faceva dell’etica del lavoro la sua religione. “Petrovic ha fatto la felicità di tutti gli appassionati di basket con il suo gioco. Il suo modo di intendere la vita era apparentemente, solo apparentemente, semplice: ‘Oggi, voglio migliorare più di ieri, ma meno di domani.‘ E lo ha fatto, fino a quel tragico giorno del 7 giugno 1993″, così lo ricorda Vladimir Stankovic, giornalista serbo con esperienza pluridecennale, anche collaboratore per Euroleague.net.
All’apice della sua carriera, il Mozart dei canestri ci ha lasciati e, con questo articolo, proviamo un po’ a capire perchè sia stato così importante e rivoluzionario.
“La sfida. Non ci sono soldi che tengano, niente può spingerti a giocare meglio. Ma se mi sfidi, sono pronto ad ucciderti. Questo era lui”, Drazen Petrović secondo Dino Radja, che con ‘Petro’ ha condiviso tantissime esperienze in Nazionale. Prima come Jugoslavia, poi come Croazia dal 1992, quelle erano due nazionali strapiene di campioni. Una squadra, la Croazia, che provò a tenere testa anche al Dream Team di Barcelona ’92, perdendo la finale contro gli USA per 85-117. Drazen Petrović quella sera ne mette 24, con Toni Kukoc e lo stesso Radja (16 e 23 punti rispettivamente) a supportarlo. Ma quello è il Dream Team: troppo forte, probabilmente la squadra più forte di sempre. La medaglia d’argento sarà comunque la prima medaglia della storia conquistata dalla Croazia e ad oggi ne è ancora il risultato migliore in una competizione internazionale.
Non posso fare a meno di inserire una digressione, riguardo Petrović, abbastanza personale. I requisiti dell’impersonalità e dell’oggettività, infatti, possono andare a farsi benedire quando si hanno testimonianze dirette di un basket che non esiste più. In questo caso mio padre è la fonte: mi racconta della sera in cui vide Petrović e il suo Real Madrid sfidare l’allora Snaidero Caserta. Coppa delle Coppe 1988-1989: sfida valida per uno dei due gironi eliminatori della fase finale (di questi due gironi a 4 squadre le prime due classificate di ciascun gruppo andavano a giocarsi le semifinali, nda). Tra le fila di Caserta, oltre agli scugnizzi Ferdinando Gentile e Vincenzo Esposito, c’è Oscar Schmidt, uno dei più terrificanti marcatori nella storia del Gioco (inserito nella Hall of Fame di Springfield nel 2013). Si affrontano due squadre che puntano alla vittoria finale.
È il 24 gennaio 1989. In un PalaMaggiò gremito – chiaramente anche oltre i posti a sedere disponibili – arriva la corazzata Real Madrid. Mio padre parla da grandissimo appassionato di basket. Mi racconta di un tifo incredibile, un putiferio vero e proprio in supporto della squadra di casa… Ma non è come al solito. Tutti gli occhi sono puntati verso un solo giocatore, e non ha la maglia bianconera di Caserta. Come accade solo per i grandissimi talenti, quelli in grado di illuminare ogni palcoscenico semplicemente allacciandosi le scarpe, anche quella sera Drazen Petrovic semplicemente catturò tutte le attenzioni. Fu una partita all’ultimo sangue, si concluse con la vittoria 95-94 della squadra spagnola. Nonostante ciò i tifosi casertani, tra cui mio padre, poterono tornare a casa più che soddisfatti: avevano visto all’opera Mozart, autore di 31 punti per i suoi.
Una serata sobria, insomma, rispetto a quello che accadde qualche mese dopo. In data 14 marzo si svolse il rematch della partita appena citata, ma stavolta si trattava della Finale. Quella sera Petrović esagerò: ne mise addirittura 62 e i madridisti vinsero la seconda Coppa delle Coppe della loro storia. Nando Gentile, che quella sera ne mise 34, descrisse in seguito quella serata così: “La posta in palio era altissima, l’ambiente infuocato, e lui commise un solo errore in tutta la partita. Sulla palla decisiva perse il controllo del pallone e io subii fallo a tempo scaduto. Probabilmente, però, il tempo non era affatto scaduto e ci furono aspre polemiche. A quel punto andammo ai supplementari e Petrovic si sarebbe potuto scomporre. Ebbene, nel corso dei supplementari tenne palla solo lui. Per Caserta segnavamo io e Oscar, dall’altra parte c’era lui, ovunque. Era una macchina“.
A quel punto i pezzi grossi della palla a spicchi negli Stati Uniti decisero finalmente di muoversi per portare quel fuoriclasse in America. Quella del 1989 fu quindi la prima e l’ultima stagione di Petrović in Spagna, dopo che vi si era trasferito l’estate precedente dal Cibona Zagabria, una squadra che guidata dal super-talento croato a metà degli anni ’80 arrivò a vincere per due stagioni di fila l’Eurolega (l’allora Coppa Campioni).
L’ approdo in NBA. Drazen Petrović era stato scelto al 3° giro, 60esima scelta del Draft 1986 dai Portland Trail Blazers. Chiamata un pò tardiva per colui che avrebbe vinto l’MVP dei Mondiali FIBA del 1986 e degli Europei 1989 (con la Jugoslavia). Uno che in Europa aveva vinto tutto e convinto tutti. Erano tempi diversi, gli internationals non trovavano proprio la strada spianata.
I Trail Blazers di fine anni ’80 erano quelli di Clyde ‘The Glyde’ Drexler e Terry Porter; l’allenatore era Rick Adelman. Una squadra affermata che arrivò in quella stagione a giocarsi la Finale NBA contro i ‘Bad Boys’, i Detroit Pistons di Isiah Thomas che vinsero la serie nettamente (4-1) e portarono a casa il secondo titolo consecutivo. Durante la sua prima stagione negli USA il nativo di Šibenik, località della Dalmazia, non trova molto spazio: circa 12 i minuti giocati a partita per 7.6 punti. Troppo pochi per uno che l’estate precedente ha vinto da protagonista assoluto gli Europei giocati a Zagabria con la sua Jugoslavia. A Portland è ritenuto semplicemente un tiratore puro, giudicato troppo debole per gli standard atletici e difensivi NBA.
È per questo che già dall’inizio della stagione successiva cerca di trovarsi un’altra sistemazione. Detto fatto: Drazen diventa un giocatore nei New Jersey Nets. Nonostante la squadra non sia molto competitiva può finalmente dimostrare di cosa sia capace. Nel primo periodo ai Nets, stagione 1990-91, in 43 partite segna 12.6 punti a partita in 20.5 minuti di utilizzo medio. Sta scaldando i motori, sta trovando il suo posto nella Lega e anche gli altri se ne stanno accorgendo. “Mi sfidava, mi insultava in quattro lingue. Adoravo giocare contro di lui. Per me è il miglior tiratore che abbia mai visto”, dirà in seguito Reggie Miller, uno che di tiratori se ne intende… Gli attestati di stima arrivano anche dal migliore in assoluto, ‘Sua Altezza’ Michael Jordan: “Era appassionante giocare con lui. Giocava aggressivo, ma non era nervoso. Giocava duro con me come io con lui. Abbiamo avuto grandi battaglie”. Brividi.
Stagione 1991-92. Adesso lo spazio in squadra c’è, eccome. Parte sempre in quintetto, sfiora i 37 minuti a partita, e da titolare indiscusso fa tremare gli avversari ogni sera. Le cifre? 20.6 punti, 3.1 assist e il 44.4% dall’arco. La squadra non è granché ma arriva ai Playoff, perdendo la serie al primo turno contro i Cleveland Cavaliers per 1-3. In estate ‘Petro’ porterà la sua Croazia all’argento olimpico, come abbiamo già visto. Un episodio di quelle Olimpiadi spagnole ci fa anche comprendere quale fosse la percezione dello straniero a quel tempo per i giocatori americani. Come Scottie Pippen dimostrò con le sue “attenzioni” verso Toni Kukoc, suo futuro compagno ai Chicago Bulls, la NBA era lontana dal grado di globalizzazione raggiunto oggi (nel 2015-16 per il secondo anno di fila il campionato NBA è partito con almeno 100 giocatori internationals attivi nei roster delle 30 squadre).
Drazen Petrović vuole essere protagonista anche in America, e la seconda stagione dá ulteriore conferma delle sue capacità. 22.3 punti di media, 3.5 assist, 51.8% dal campo e 44.9% da tre in 38 minuti netti a gara. L’infortunio fino alla fine della stagione di Kenny Anderson, point-guard al secondo anno che prima dell’infortunio viaggiava a 16.9 punti e 8.2 assist di media, fu una grave perdita che portò i Nets ad uscire di nuovo al primo turno dei Playoff, di nuovo con i Cavaliers ma col risultato di 2-3 nella serie. Alla fine della stagione Petrović è richiesto un pò ovunque, anche dal Panathinaikos, squadra greca che farebbe follie pur di riportarlo in Europa. Lo stesso giocatore vuole cambiare aria, perchè l’unica cosa che gli interessa è vincere. Nell’estate del 1993, di ritorno da una partita del Torneo di qualificazione agli Europei giocata con la sua adorata Croazia, la tragedia. La decisione di tornare in Croazia in automobile con la fidanzata e un’amica, invece di seguire la squadra in aereo, si rivelerà fatale. Il drammatico incidente in cui il campione croato perse la vita avvenne su un’autostrada vicino Ingolstadt, Germania, il pomeriggio del 7 giugno 1993. Una vita e una carriera incredibili, stroncate a soli 28 anni.
Il Cibona Zagabria gli intitolò il palazzetto nell’ottobre del 1993; nel 1995 fu eretta una statua in suo onore davanti al Museo Olimpico di Losanna in Svizzera; il 2002 lo vide entrare tra i più grandi di sempre nella Hall of Fame di Springfield; il Drazen Petrović Memorial Center, un museo interamente dedicato a lui a Zagabria, la sua città, fu inaugurato nel 2006. Sono solo alcuni indizi che fanno capire quanto questo giocatore sia stato influente per il basket moderno. Ancora oggi è ritenuto da molti il miglior giocatore europeo della storia del basket. Unico nel modo di giocare, nella capacità di leadership, nell’innalzare sempre il suo livello di gioco, fondamentale fu la sua influenza sugli stranieri che dopo di lui avrebbero cercato fortuna nella NBA. David Stern, ex-commissioner della Lega, non avrebbe potuto trovare parole migliori per descriverlo: “Drazen Petrović era un ragazzo straordinario, un vero pioniere del basket mondiale. Credo che il suo lascito più duraturo sia stato quello di aver spianato la strada ai giocatori internazionali che avrebbero in seguito avuto successo nella NBA. Il suo contributo alla pallacanestro è stato immenso. Siamo tutti orgogliosi di averlo conosciuto”.
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