Con la collaborazione di Elio Granito (Numero Diez, SalernoSport24).
Il modello occidentale dell’eroe deve molto alla mitologia greca. Pensiamo ad Achille, tanto forte da far tremare i propri avversari. O Ettore: guerriero valoroso, padre, marito e fratello esemplare.
Eppure, ciascuno di loro è descritto da Omero anche nel suo aspetto più fragile: il momento del pianto, del terrore, della follia.
Questi aspetti non appaiono mai in contrasto con la dimensione valorosa dell’eroe, ma ne sono parte integrante perché, nella visione omerica, la fragilità nobilita l’uomo e ne esalta la forza d’animo.
Achille abbraccia Priamo, suo nemico, piangendo con lui per i cari persi in guerra. Ettore trema per un’intera notte tra le braccia di sua moglie, prima di affrontare il suo ultimo duello.
Se questi erano i modelli maschili per eccellenza, perché un ragazzo ad oggi dovrebbe sopportare lo stigma della vergogna e della debolezza se avvertisse la necessità di aprirsi e mostrare le proprie inquietudini? Quando la potenza starebbe nell’accettare la nostra natura. Accettare di essere dei sistemi caotici, sensibili e fragili.
In quest’ottica, l’esempio di uomini come DeMar DeRozan, Kevin Love, Michael Phelps diventa fondamentale se si vuole innescare un’epidemia di onestà, che sgretoli quel monumento che è il machismo, ridando agli uomini il potere: quello di essere se stessi e chiedere aiuto.
Gli atleti sono incubatori di valori sociali, simboli su cui proiettare i sogni e le aspirazioni più recondite dell’uomo comune. La nascita di questo nuovo modello di atleta, che basa la propria forza e il proprio messaggio sull’accettazione dell’imperfezione, non è un’anomalia. È la proiezione di un bisogno delle nuove generazioni.
Uno se li immagina forti, competitivi. Gli atleti non possono sentirsi persi. E invece.
Prendiamo come esempio alcuni casi della pallacanestro americana.
Quando, in una notte di aprile del 1993, un uomo chiamò la polizia di Detroit per chiedere aiuto a seguito del tentato suicidio di Dennis Rodman, quello rimase in silenzio per parecchi minuti. Rodman fu poi trovato con un fucile nel parcheggio dell’arena.
Ancora: era il 17 Febbraio del 2018 quando DeMar DeRozan scagliò questo fulmine a ciel sereno. Si aprì con esemplare serenità a raccontare delle sue fragilità e di unritrovato equilibrio interiore, raggiunto solo grazie ad un percorso terapeutico. Non appariva un uomo sconfitto, imbarazzato. Sembrava in perfetta antitesi con l’immaginario pietoso e isterico con cui il pensare comune ama ritrarre il disagio. La sua lucida confessione aprì un varco in quel velo mistificatorio che sottopone gli atleti al peso di una perfezione malsana, imprigionandoli nello stereotipo di “super-umani” ai quali non può essere concesso il “lusso” di perdere il controllo.
Rui Hachimura, dopo i Giochi di Tokyo 2020 ha saltato 39 partite per motivi personali. Non si sentiva pronto. Eppure, aveva toccato il momento di maggiore fama. Ray Allen, ammise di soffire di un disturbo ossessivo-complusivo. Mitchell Robinson ha raccontato della sua battaglia contro la depressione.
Tanti studi scientifici hanno dimostrato come gli atleti professionisti corrono un rischio maggiore di soffrire di disturbi mentali rispetto al resto della popolazione. Lo sport agonistico richiede uno sforzo fisico unico rispetto a qualsiasi altro lavoro, ma pretende anche un enorme sforzo mentale ed emotivo. Un atleta professionista deve allenare il corpo, ma anche la concentrazione e la precisione. Deve fare scelte complesse in poco tempo e pensare a molte cose contemporaneamente. Dal punto di vista emotivo, deve far fronte alla pressione di sponsor, allenatori, compagni, fans, se stesso anche.
Se questi fattori erano validi anche in passato, negli ultimi decenni l’avvento dei social media ha aggiunto un’ulteriore fonte di stress. Essere sotto lo sguardo del mondo, oggi, significa anche leggere i commenti non sempre piacevoli dei followers, che possono peggiorare un equilibrio mentale già messo a dura prova dai fattori precedentemente elencati.
Ma la vera domanda è una sola. Curarsi o non curarsi?
È una scelta che permea gli spogliatoi ogni giorno, perché gli atleti professionisti cercano di affrontare silenziosamente i problemi. Il pregiudizio è uno. Sempre solo uno. Che aumenta quando i “colleghi” scoprono che un compagno si trova sotto farmaci. È un rischio che alcuni giocatori credono non valga la pena correre, perché potrebbe condizionare le loro carriere.
Ci sono però alcune modalità che, se messe in atto, possono migliorare la situazione. La NBA, ad esempio, ha varato la propria linea politica sulla salute mentale e ha inviato un promemoria interno a tutte le sue squadre con le linee guida da seguire, tra cui: garantire la privacy del giocatore per quanto riguarda la sua salute mentale, assumere e mantenere uno specialista con esperienza nel campo, trovare uno psichiatra sempre disponibile per i giocatori, fornire alla squadra materiale informativo e di sensibilizzazione sull’argomento.
Un passo avanti dunque, ancora una volta.
Sempre più atleti e squadre ormai ricorrono all’aiuto medico di psicologi e psichiatri. E a volte non basta. Perché i campioni sono come noi. Persone.
Ed è stato proprio questo l’argomento di discussione principale nell’intervista con la dottoressa Barbara Rossi.
Psicologa e psicoterapeuta specializzata in interventi individuali e di gruppo, socia aion-coirag, è docente e referente nazionale del Settore tecnico FIGC per l’area psicopedagogica.
Riportiamo qui di seguito le risposte che ci ha gentilmente fornito.
Elio – Dottoressa, iniziamo subito: come definirebbe personalmente lo sport?
“La definizione di sport è una domanda enorme. Posso dire quello che secondo me è lo sport in questo momento, certo. Lo sport ha accompagnato l’evoluzione dell’uomo quasi da sempre. Come anche il confronto, la competizione. Dal mio punto di vista lo sport è un’attività indispensabile per i giovani, ma anche per le persone più grandi o per gli anziani. È un’opportunità infinita di ricerca della salute, di confronto con gli altri, o anche semplicemente di socializzazione. Credo che ognuno, al livello al quale ama praticare lo sport, può trovare un’intera miniera di risorse in esso. Anche dal punto di vista della società”.
Elio – In che modo andrebbe vissuta l’esperienza sportiva secondo lei?
“Chiaramente c’è da fare una distinzione. Se sono un’atleta che si allena per le Olimpiadi, sicuramente la vittoria ha un peso da non sottovalutare. Se faccio sport solo dal punto di vista del mantenimento della salute, è il discorso è tutto un altro. Quindi dipende molto dal livello a cui lo sport viene praticato. Però, se dovessi trovare un filo comune e generale, sta proprio nella ricerca di un equilibrio psicofisico. Per tutte le persone. Insomma, sappiamo bene che se tutti praticassero attività motoria, siccome io metterei nello stesso discorso sport e attività motoria, la spesa del Ministero della Salute sarebbe infinitamente più bassa e si abbasserebbe la percentuale di malattie cardiocircolatorie. Insomma, sarebbero tantissimi i cambiamenti, che potrebbero aiutare tutti quanti a vivere meglio. Però, è chiaro che bisogna investire molto di più su tutto ciò. Invece, per quanto riguarda la parte agonistica, voler vincere è importante. La motivazione per ottenere alti risultati, nel caso di chi pratica sport a livello professionale, è un’altra cosa. Ma anche lì: la ricerca dell’equilibrio personale è alla base. Se ne parla tanto durante le Olimpiadi, ne parlano gli atleti stessi ormai”.
Elio – Vorremmo chiederle poi, dottoressa, in merito qualcosa in merito al Corso di specializzazione in Psicologia del calcio, promosso dal Settore tecnico di Coverciano. Potrebbe parlarci di questo corso e dirci di cosa tratta principalmente?
“L’obiettivo dichiarato di questo corso è proprio quello di formare Psicologi dello sport, che siano competenti e sappiano farsi trovare pronti per una richiesta che sta cominciando ad arrivare sempre di più da parte delle società sportive. Soprattutto all’estero, quasi tutti i club calcistici di alto livello hanno uno psicologo personale al loro interno. In Italia siamo un pochino indietro, ma immagino che piano piano il trend si espanderà e arriverà anche qui da noi. Alla Federazione preme fare in modo che le squadre trovino professionisti con una preparazione adeguata. L’impiego dello psicologo all’interno di una società di calcio tocca vari livelli. Basta pensare al semplice incremento di performance, parlando dello psicologo che lavora con gli staff tecnici, con i calciatori o le calciatrici, e riesce a dare quel valore aggiunto alla squadra. Ma non si tratta solo di questo. Si tratta anche del riuscire a lavorare insieme agli altri professionisti della riabilitazione, e quindi riuscire a fare in modo che gli atleti infortunati riescano a recuperare meglio e più velocemente. È importante accompagnare i calciatori in qualunque passaggio delicato di carriera. Una carriera è fatta di alti e bassi, quindi la presenza di uno psicologo è una garanzia, perché significa che l’atleta è seguito. Quindi, sia come incremento di performance che come tutela della salute dei calciatori, ma non solo. Anche dal punto di vista dello staff, sicuramente uno psicologo all’interno di una società garantisce una possibilità di confronto anche per tutti gli allenatori. Una realtà vincente può diventare tale solo grazie all’aiuto di queste figure. Così può diventare un luogo in cui tutti stanno bene e in cui le persone arricchiscono la propria formazione. Sicuramente c’è una chance in più di vincere, oltre a quella di creare ambienti sani, fertili, in cui ci si trova a proprio agio e si riesce a dare il meglio di sé”.
Carmen – Proprio in merito al tema della salute mentale, ci hanno colpito molto le dichiarazioni di Patricio Gabarrón. Lui spesso ha parlato del suo problema con la depressione, non ha mai nascosto questa cosa. Addirittura ha dichiarato: “Ricordo che in tante partite non vedevo nemmeno dove fosse il pallone. A volte non dicevo di star male per non deludere gli altri, ma non facevo affatto un favore a me stesso”. Quello che volevamo sapere da lei, dottoressa, in merito a questo argomento è: che ripercussioni può avere una condizione del genere sulla carriera di un giocatore? Soprattutto se giovane, perché agli inizi si può accusare anche di più questo tipo di problema. E, soprattutto, come può essere affrontato?
“C’è una cosa che spesso ci scordiamo, e cioè che si parla appunto di ragazzi. Ragazzi spesso giovani, che si ritrovano in condizioni del tutto particolari. Si pensa che il percepire degli stipendi alti debba mantenerli sempre felici e contenti. In realtà, questi ragazzi vivono in condizioni quasi di isolamento. Non possono uscire, perché verrebbero riconosciuti. Insomma, la situazione presenta molte difficoltà. Quindi, come in qualunque altra categoria, la possibilità di manifestare una sindrome depressiva c’è. E, già il fatto che negli ultimi anni tutto ciò venga riconosciuto e i calciatori ne comincino a parlare, secondo me è un grosso passo culturale in avanti. Sta tutto nella capacità di chiedere aiuto. E una volta chiesto aiuto, non dico che il più è fatto, però sicuramente un grosso passo in avanti è stato compiuto. La psicoterapia moderna viene incontro a questo tipo di disturbi in tanti modi. Sono tanti modi di approcciare questa problematica, a seconda delle caratteristiche di ogni persona. Quindi, il modo di intervenire c’è sicuramente. In realtà bisogna anche dire che uno psicologo che lavora internamente ad un club, in teoria non è colui che si occupa della parte relativa al disturbo. Sta all’interno della società, quindi funge principalmente da garante e da tutore. Svolge un supporto momentaneo, poi si vede se è il caso di indirizzare il calciatore o la calciatrice a una psicoterapia un po’ più lunga e complessa o a un supporto che può essere svolto all’esterno del club. Il ruolo dello psicologo dello sport non è quello dello psicoterapeuta. Però, sicuramente è una persona in grado di cogliere i primi segnali di un disagio e fare in modo di aiutare la persona prima che la situazione si aggravi, e prima che sia necessario fare degli interventi anche farmacologici o più importanti. Avere uno psicologo all’interno dello staff è una tutela per la salute di tutti quanti. Sicuramente se si soffre di depressione non bisogna nasconderlo, ma bisogna manifestarlo il prima possibile, in modo che si possa venire aiutati nel modo più adatto”.
Carmen – Procediamo subito con un’altra domanda, in merito a quello che lei diceva prima: alle volte ci scordiamo che gli atleti sono anche esseri umani e spesso sono ragazzi, quindi particolarmente giovani. Per la prossima domanda volevamo rifarci alle parole di Inako Diaz riguardo Alvaro Morata, riguardante un caso abbastanza recente. Lui sostiene che, in quello che è un mondo ancora governato dal testosterone e codici obsoleti, la vulnerabilità viene spesso perseguitata. Volevamo sapere lei cosa ne pensa riguardo la sensibilità, e cioè se la ritiene un punto di forza o un punto di debolezza, oltre al ruolo che può avere in una situazione come quella che ha descritto prima, quindi una sindrome depressiva?
“La sensibilità è sicuramente un valore aggiunto che le persone hanno. La cosa importante è saperla gestire. Lo psicologo è una figura che può offrire degli strumenti adatti a gestire la propria sensibilità. Sensibilità significa tante cose. Noi purtroppo tendiamo ad associare questa parola ad un qualcosa di negativo, ma in realtà non lo è. Invece credo che sia fortemente negativo lo stereotipo che vuole il maschio invincibile e mai in richiesta di aiuto. Non so se lo sapete, ma in linea di massima i suicidi sono maggiormente a carico degli uomini. Sono più gli uomini quelli che si suicidano proprio per questo, per la difficoltà nel chiedere aiuto, per la vergogna. E questo è uno stigma, un pregiudizio che penalizza moltissimo gli uomini. È vero che il pregiudizio pesa molto anche sulle donne, che soprattutto nel calcio sono molto penalizzate. Ad esempio, se andate a vedere sotto ai post che parlano di calcio femminile tutti i vari commenti, trovate frasi come ‘Vai a lavare i piatti’ o cose del genere. Questo genere di frasi sono ancora molto attuali in Italia e soprattutto nel mondo del calcio. Il rovescio della medaglia è però questo stigma che vuole gli uomini fortissimi. Ma, siccome siamo esseri umani e nessuno è invincibile o invulnerabile, ecco che questo diventa una penalizzazione anche il maschio. Sarebbe opportuno superare questi stereotipi e riuscire a fare in modo che ognuno si senta libero di esprimere i propri momenti di fragilità. In queste Olimpiadi, non so se ci avete fatto caso, sta venendo spesso fuori questo tema, ed è normale. Quando si è sottoposti a determinate pressioni, pochissimi sono gli atleti che non soffrono. Anche quando ci sembra che non soffrano, in realtà è soltanto perché hanno fatto esperienza delle proprie fragilità e hanno imparato ad accoglierle. Di conseguenza, sanno lasciarsi condizionare il giusto”.
Elio – Per quanto riguarda invece altre tematiche legate alla salute mentale, avevamo pensato di parlare di ossessione, di ricerca spasmodica di dover essere perfetti in ogni cosa e in ogni momento. Pensavamo in particolare alle parole del nuotatore Giorgio Minisini: “Nuotare mi faceva sentire vivo, era puro divertimento. Poi però è diventata una missione”. Quindi c’è questo passaggio, dal divertimento all’ossessione. Fare un qualcosa prima per il piacere di farlo, e poi per accontentare qualcun altro. Pensavamo anche alle parole della sua collega, la dottoressa Alessandra Mosca. Lei sostiene che l’importante è che una passione non sia ossessiva ma armoniosa. Lei cosa pensa a riguardo?
“L’ossessione è una parola spesso abusata. In realtà io vedo che in molti casi si tratta solo di una motivazione persistente, perché l’ossessione è sempre patologica. Se parliamo di ossessione, stiamo parlando di malattia. Niente che riguardi la parola ossessione può essere positivo, nemmeno se ti fa vincere una medaglia. Quindi io parlerei di motivazione persistente, che è una caratteristica che, in quanto esseri umani, ci ha evitato l’estinzione. Perché l’uomo non si è estinto? Proprio perché ha sempre avuto la capacità di non arrendersi, la resilienza. Dobbiamo parlare di quella capacità di rialzarsi dopo aver avuto una batosta dalla vita. Credo che la parola ossessione trovi largo spazio di discussione perché spesso le narrazioni che i giornalisti fanno agevolano parole ‘acchiappa like’, piuttosto che concetti che rispecchiano quello che le cose sono. Secondo me il giornalista a questi livelli non dovrebbe proprio arrivare. Quando si parla di ossessione, ripeto, si parla di un qualcosa di patologico. Però la motivazione persistente, la perseveranza, come dice Ettore Messina ‘l’auto-esigenza’ o la capacità di generare autonomamente delle motivazioni che si rinnovano sempre, quello è un tratto caratteristico del campione. E il campione non è quello che viene motivato dall’allenatore. Il campione è quello che, nonostante i momenti di fragilità e di vulnerabilità, poi si rigenera. E ritrova il motivo per cui fare tutti i sacrifici necessari ad ottenere il risultato o coronare il proprio sogno. In realtà si possono anche avere i sogni, però se non si ha quell’orientamento al sacrificio è difficile arrivare a livelli altissimi, perché bisogna lavorare tanto. Ma non credo che questa sia ossessione, credo che questa sia una motivazione persistente”.
Elio – Poco fa stavamo parlando proprio di questo, della possibilità di non riuscire a coronare il sogno di un bambino. Un bambino spesso cresce con l’idea di dover necessariamente vincere, e quindi non vive lo sport nel pieno del suo messaggio positivo o come un qualcosa di serenamente irrealizzabile. Adriano Panatta infatti diceva che “Un conto è saper giocare, un conto è saper vincere”. Bisogna anche saper vincere. Ognuno di noi deve avere una propria massima aspirazione, ma anche la consapevolezza di conoscere i propri limiti e sapere che potrebbe non farcela. Questo tipo di messaggio è giusto da lanciare ai bambini? Da dove bisognerebbe partire?
“Io credo che i bambini debbano essere lasciati liberi di sognare, e credo che in questo ci siano solo cose buone. Il problema è quando noi adulti carichiamo questi sogni di aspettative eccessive. Il bambino, crescendo, inizia a strutturare le proprie attività secondo i propri desideri, alle proprie inclinazioni e anche alle proprie capacità. Quindi, credo che spesso i disastri li facciamo noi adulti pensando che l’unica cosa che conti sia la vittoria. La vittoria è sicuramente importante, è un qualcosa di bello, un passaggio determinante nella carriera. Ma lo è così come lo è la sconfitta. I ragazzi hanno molte più cose da imparare dalle sconfitte, se vengono lasciati sereni di imparare. Credo che gli errori siano passaggi fondamentali per la crescita. Quando si diventa grandi si vede quello che uno può fare, e invece siamo sempre più propensi a commettere forzature che hanno più a che fare con il nostro ego che con lo sport. Il gioco dei bambini dovrebbe essere sempre più orientato alla salute e al raggiungimento di quell’equilibrio di cui parlavamo all’inizio”.
Elio – Proprio in merito alle pressioni che vengono dall’esterno, pensiamo a quanto accaduto di recente alle Olimpiadi, a Benedetta Pilato. In merito a ciò a lei cosa pensa?
“Sicuramente ce l’abbiamo un pochino dentro questa cosa. Pensiamo sempre che se arrivi secondo, sei il primo dei perdenti. Questo l’ho sentito tante volte ed è una stupidaggine incredibile. Seguo Elisa Di Francisca da tanti anni, credo che abbia solo scelto male le parole, non credo che avesse intenzione di dire quello che si capiva. Al di là di quanto detto da lei, per non soffermarci sempre sul negativo, credo che la dichiarazione della Pilato, una ragazzina di 19 anni che ha tutta la vita davanti, sia veramente un insegnamento per tutti noi adulti ma anche per i ragazzi. Una persona che dice di avercela messa tutta, non è scontata. Questi ragazzi ci stanno insegnando qualcosa e speriamo di portare avanti quello che ci insegnano”.
Carmen – Spesso il pubblico non pensa al fatto che dietro una prestazione ci sia una preparazione assurda, e che già essere arrivati alle Olimpiadi è un risultato enorme quando si tratta di ragazzi così giovani. Da diciannovenne, anch’io ritengo l’atteggiamento della Pilato di insegnamento. E questo fa riflettere me ed Elio sulla percezione che noi abbiamo di noi stessi e sulla percezione che gli altri hanno di noi. Lo abbiamo collegato un po’ alle parole di Daniele De Rossi, che faceva riferimento alla sua abitudine di mettersi le mani in tasca durante le partite. Lui sostiene che in alcuni ambienti lo vedevano come un cretino, mentre una volta arrivato sulla panchina della Roma veniva visto come sicuro di sé. Volevamo sapere quindi cosa lei pensasse riguardo questa cosa, cioè quanto è importante la percezione di sé stessi, in rapporto alla percezione degli altri che poi si riversa su di noi?
“Questo fattore è molto importante. Nessuno fa qualcosa e basta. Facciamo tutti qualcosa da qualche parte. E, come dice De Rossi, lo stesso gesto fatto in un posto dove sei uno come gli altri o in un posto dove sei estremamente amato diventa completamente diverso. Saperlo serve per tenere i piedi per terra, per gestire tutto in maniera più distaccata, per vedersi anche da fuori e non affidarsi soltanto a quello che dicono gli altri. È molto difficile, perché questo mondo è fatto di apparenza, in cui i social media gonfiano sempre di più l’importanza di ciò che appare. Io credo che lo sport sia invece sostanza. Ho sempre pensato che prima del campione venga l’essere umano, e dietro grandissime carriere ci sono delle persone solide, che hanno saputo costruire i loro risultati costruendo prima la persona che sono. Quindi è da tenere in conto questo, ma anche l’importanza dell’ambiente dove si opera. Su questo lo psicologo fa molta attenzione, prova cioè a migliorare l’ambiente dove opera dal punto di vista psicologico. Uno psicologo lavora non solo con l’atleta, ma cerca di creare intorno a lui un ambiente migliore, più sano. Perché nessuno arriva a vincere la medaglia o un campionato senza niente intorno”.
Carmen – Volevamo poi passare agli avvenimenti degli scorsi mesi, in particolare al caso di Paul Pogba. Volevamo sapere lei cosa ne pensa e soprattutto qual è il percorso terapeutico più adatto e il lavoro da fare riguardo le emozioni che prova una persona in quella condizione. Come può essere gestito questo tipo di pressione, quali sono i rischi e quale il possibile recupero?
“Sarei una persona estremamente superficiale se vi dicessi secondo me Pogba deve fare qualcosa piuttosto che un’altra. Credo che sicuramente nel percorso di recupero di un calciatore che attraversa un momento così difficile, si deve dare importanza anche alla parte psicologica. Quindi credo che oltre a tutto il resto sia importante anche offrire un supporto di questo tipo, che vada ad analizzare attraverso colloqui o test le criticità e i punti di forza dell’atleta in questione. Quindi che analizzi a fondo la faccenda con degli strumenti che soltanto noi psicologi possiamo usare, e aiuti a ritagliare un percorso di supporto idoneo, che si muova anche in collaborazione con tutte le altre figure di contorno. Questa è la cosa importante: agire con cognizione di causa sulla base di una diagnosi fatta in maniera corretta, ma agire anche in sinergia con tutte le altre figure”.
Elio – In questi casi è necessaria la psicoterapia?
“Non saprei, dipende dal caso. Una volta che ci sei dentro e hai tutte le informazioni che si recuperano con una fase di assessment, che è di solito il primo step che si affronta quando si ha che fare con una situazione del genere, si procede col disegnare un percorso mirato per la persona specifica. La psicologia dello sport ha questo di bello: abbiamo vent’anni di studi alle spalle, quindi non esiste una cosa che va bene per tutti. Abbiamo tanti strumenti e tante risorse, che vengono messe al servizio della persona esattamente per quello che serve a lei, con i tempi e con i modi giusti. L’unica cosa che non cambia è cercare, in questo percorso, di tenere presente anche tutto il sistema intorno al calciatore”.