Home NBA, National Basketball AssociationApprofondimenti David Thompson, l’uomo che camminava nell’aria

David Thompson, l’uomo che camminava nell’aria

di Stefano Belli

Per un breve periodo, David Thompson fu il più grande cestista vivente, con il solo Julius Erving a tenergli testa per questo titolo. Le sue schiacciate da urlo fecero impazzire milioni di tifosi, tra i quali spiccava un certo Michael Jordan, che dichiarerà in seguito di essersi ispirato proprio a lui, l’inimitabile ‘Skywalker’. Come mai, allora, il suo nome non compare nei classici elenchi degli immortali del gioco? Probabilmente perché la sua è la più grande storia da “what if…” in una lega stracolma di grandi incompiute.

'Skywalker' David Thompson

‘Skywalker’ David Thompson

Nato e cresciuto, insieme ad altri dieci tra fratelli e sorelle e al cugino Alvin Gentry (attuale allenatore dei New Orleans Pelicans), nelle campagne di Boiling Springs, North Carolina, David divenne una stella alla Crest Senior High School, scuola superiore della vicina Shelby. Fin da giovanissimo mise in mostra delle straordinarie doti; aveva un’innata sensibilità nel tiro dalla media distanza, un primo passo fulminante e, soprattutto, un’elevazione mai vista prima (secondo alcune misurazioni si avvicinava ai 120 cm; lo stesso Thompson raccontò che da piccolo si allenava correndo e saltando le lapidi in un cimitero vicino a casa!).

Fu convocato all’ All Star Game liceale del North Carolina, e ben presto l’intero stato si accorse di aver dato i natali ad un autentico fenomeno. Coach Norm Sloan riuscì a reclutarlo tra le fila di North Carolina State University, dove David divenne in poco tempo una leggenda locale. Per sfruttare le sue abbaglianti doti atletiche, il playmaker dei Wolfpack, Monte Towe, ebbe la geniale idea di servirgli degli assist sui tagli ‘back-door’. All’epoca vigeva la cosiddetta ‘Alcindor Rule’, che vietava l’utilizzo della schiacciata (…), ma le alzate di Towe per gli appoggi volanti di Thompson diedero vita, di fatto, a quello che oggi chiamiamo alley-oop. A Sloan quella strategia piacque moltissimo, e la trasformò in un’arma letale che aiutò NC State a raggiungere la grandezza.
Trascinati da Thompson, Towe e dal centro Tom Burleson, i Wolfpack chiusero la stagione 1972/73 con un record perfetto: 27 vittorie e ZERO sconfitte. L’integerrima NCAA decise però di bandirli dal torneo finale, a causa di una serie di irregolarità emerse sul reclutamento di David. Pare infatti che il ragazzo fosse stato ospitato nel campus, avesse ricevuto dei passaggi in auto dagli uomini di NC State e avesse addirittura giocato una partitella insieme ad uno degli assistenti; tutte pratiche rigorosamente vietate. Nell’estate del 1973 David prese parte alla spedizione statunitense che vinse la medaglia d’oro alle Universiadi, battendo in finale gli acerrimi rivali sovietici (che ospitavano la manifestazione).

L’anno successivo, i Wolfpack disputarono un’altra stagione memorabile, vincendo trenta partite e perdendone solo una, massacrati dalla UCLA di Bill Walton. Arrivarono alla finale della Atlantic Coast Conference, ovvero il lasciapassare per il torneo NCAA. La partita contro Maryland viene spesso indicata come la migliore della storia della ACC. Durante la gara, David ‘decollò’ per prendere un rimbalzo offensivo, ma inciampò sulla testa (avete letto bene) del compagno Phil Spence e rovinò a terra, battendo forte collo e schiena. Rimasto pressoché incosciente, fu portato via in ambulanza. Riuscì comunque a tornare e, con l’aiuto di un sontuoso Burleson (38 punti e 13 rimbalzi), guidò i suoi alla vittoria.
Dopo aver sconfitto anche Providence e Pittsburgh, il tabellone del torneo mise NC State di fronte ad un ostacolo apparentemente insormontabile. Reduci da SETTE titoli NCAA consecutivi, gli UCLA Bruins di John Wooden non perdevano una gara del torneo dal lontano 1963 (all’epoca partecipavano solo i campioni delle rispettive Conference; nel 1965, ultimo anno senza titolo, i Bruins non erano stati ammessi in quanto sconfitti da Oregon State). A guidarli c’era il grande Bill Walton, indiscutibile prima scelta all’imminente draft NBA. Quella del 25 marzo 1974 fu un’altra gara da consegnare ai posteri. Thompson fu spaziale; chiuse con 28 punti, una pazzesca stoppata su Walton e il canestro che decise l’incontro al secondo overtime. UCLA fu abbattuta, e la finale fu una pura formalità; NC State superò anche Marquette e si laureò campione NCAA 1974. David Thompson fu eletto Most Outstanding Player delle Final Four.

David Thompson contro Bill Walton di UCLA

David Thompson contro Bill Walton di UCLA

Il clamoroso successo non fu bissato nel 1975, anno in cui i Wolfpack rimasero fuori dal torneo NCAA dopo la sconfitta rimediata contro i più blasonati ‘cugini’ Tar Heels. Alla sua ultima apparizione davanti al pubblico di NC State, David decise di infrangere il più grande ‘tabù’ di quel periodo; lanciato in contropiede, si esibì in una fantastica schiacciata. Come da regolamento, il canestro venne annullato e il suo gesto punito con un fallo tecnico, ma quella giocata scatenò l’ovazione del pubblico e l’applauso di coach Sloan, che decise di fargli chiudere in quel modo la sua esperienza collegiale.
Gli anni a NC State resero David Thompson una vera e propria leggenda. Il suo numero 44 venne immediatamente ritirato. Il gruppo The Embers comporrà persino una canzone intitolata Fast David And The Wolfpack, in onore dell’impresa del 1974. Tra i moltissimi fan di DT c’era anche un ragazzino della vicina Wilmington, che seguiva estasiato le vicende del suo eroe. Si chiamava Michael Jordan. Nel 2009, colui che viene da molti indicato come il più grande di sempre chiamò proprio David Thompson ad introdurlo nella Hall Of Fame.

Terminata la gloriosa carriera universitaria, arrivò il momento di fare il grande salto tra i professionisti. Thompson era per distacco il miglior prospetto della classe 1975, infatti fu scelto con la prima chiamata assoluta sia al draft NBA (Atlanta Hawks) che a quello ABA (Virginia Squires). Gli Squires erano in disastrose condizioni economiche (un classico della American Basketball Association), e non potevano certo permettersi lo stipendio di una stella di tale calibro. Potevano farlo, invece, i Denver Nuggets, probabilmente la franchigia più solida della lega. Così i diritti per la scelta di Thompson passarono (insieme a George Irvine) alla squadra del Colorado, con gli Squires che ricevettero in cambio Mack Calvin, Mike Green e Jan van Breda Kolff.
Con la fusione tra le due leghe sempre più vicina, il potente general manager Carl Scheer cercava una mossa che potesse suscitare l’interesse della NBA; iniziò dunque un feroce corteggiamento per convincere David Thompson a scegliere Denver. Scheer e coach Larry Brown, avvantaggiati dai numerosi contatti mantenuti nel North Carolina (Brown aveva giocato per tre stagioni nei Tar Heels) con l’entourage del giocatore, le studiarono tutte; arrivarono addirittura a mettere sotto contratto Monte Towe, discreto playmaker e, soprattutto, grande amico di David. Thompson fu invitato ad assistere ad una partita di playoff dei Nuggets, e trovò un palazzetto gremito che cantava il suo nome ed esponeva striscioni di benvenuto. Successivamente si recò anche ad Atlanta, dove però gli Hawks non potevano contare su un pubblico tanto ‘caldo’. Alla fine scelse i Nuggets, che per lui prepararono un contratto record da 450.000 dollari a stagione. Parte di quell’importo venne coperta dalla stessa ABA, che aveva tutti gli interessi nel portarsi a casa una nuova stella.

Thompson con il pallone tricolore della ABA

Thompson con il pallone tricolore della ABA

L’estate del 1975 segnò una svolta nella storia dei Nuggets. Oltre al fenomeno da NC State arrivarono Dan Issel, perenne All-Star e fresco campione ABA con i Kentucky Colonels, Bobby Jones e l’altro rookie Marvin Webster (soprannominato ‘The Human Eraser’ per le OTTO stoppate di media rifilate al college, Webster saltò gran parte della stagione a causa di un’epatite). La squadra si trasferì nella nuovissima McNichols Sports Arena, 17 mila posti, e il prezzo degli abbonamenti salì da 2200 a 6000 dollari.
I Nuggets divennero una delle squadre più popolari d’America, soprattutto grazie all’impatto di David Thompson. Il numero 33 stravinse la corsa al premio di Rookie Of The Year, venne inserito nel secondo quintetto All-ABA e venne convocato all’All Star Game, disputato proprio a Denver.
In occasione di quella che sarebbe stata l’ultima ‘parata di stelle’ della sua storia, la ABA aveva organizzato qualcosa di veramente speciale; nell’intervallo andò infatti in scena il primo Slam Dunk Contest di sempre.
Sulla carta, i partecipanti erano Thompson, Julius Erving, George Gervin, Artis Gilmore e Larry Kenon (davvero tanta roba), ma di fatto tutti aspettavano l’annunciata finale, un testa a testa tra DT e Doctor J, i due giocatori più elettrizzanti del pianeta. Ne scaturì uno spettacolo che i presenti non avrebbero mai dimenticato. Thompson si esibì in una serie di acrobazie inimmaginabili (tra cui un folgorante 360°), ma il Dottore rispose per le rime. Nel documentario Skywalker, David ricorda così l’evento: “Onestamente pensavo di avere delle chance di vittoria, vista la reazione del pubblico. Poi Julius ha contato i passi, si è messo a correre con quegli Afro al vento, ha staccato dalla lunetta e… beh, chiaramente sono arrivato secondo!”. Thompson si consolò vincendo il premio di MVP della partita, in cui i suoi Nuggets sconfissero una selezione di All-Star delle altre sei squadre rimaste nella lega. In aggiunta, si portò a casa un fantastico televisore. Altri tempi…

Guidata dal talento del North Carolina e da un Larry Brown nominato Coach Of The Year, Denver arrivò alle ABA Finals, dove ad attenderla c’erano i New York Nets di Doctor J. L’attesissimo showdown tra Erving e Thompson non deluse le aspettative; Julius aprì le danze con due prestazioni da 45 e 48 punti, David ne mise 42 in gara-6. Nel mezzo, quelle tonanti schiacciate che la NCAA si era permessa di negare al proprio pubblico per diversi anni. Alla fine la spuntarono i Nets, che vinsero il secondo titolo della loro storia al termine della sesta partita.
All’epoca, il dibattito che andava per la maggiore, tra gli addetti ai lavori, era su quale delle due stelle avrebbe avuto la carriera più luminosa. Se il Dottore si apprestava a dominare e a vincere anche nella NBA, David Thompson stava invece per intraprendere una strada che lo avrebbe portato alla rovina. Dopo una stagione in cui aveva disputato un centinaio di partite, la giovane matricola cominciò ad avvertire la stanchezza. Un suo compagno gli consigliò un rimedio che in quegli anni iniziava a diffondersi tra i giovani benestanti di Denver: la cocaina. “All’inizio mi ha tirato su, ma alla fine mi ha rovinato la vita.” dichiarerà in seguito Thompson.

Thompson contro Julius Erving

Thompson contro Julius Erving

Dopo anni di speculazioni, la tanto attesa fusione ebbe luogo e Denver fu tra le quattro franchigie (insieme a New York Nets, San Antonio Spurs e Indiana Pacers) incluse nella NBA. Nonostante le durissime tasse di ammissione, i Nuggets si mantennero ad alti livelli. L’affluenza di pubblico era la più alta della lega, David entrò nel primo quintetto All-NBA (fu anche il giocatore più votato per l’All Star Game) e la squadra riuscì a chiudere al secondo posto la Western Conference. I playoff finirono al secondo turno, quando i Nuggets furono eliminati dai futuri campioni, i Portland Trail Blazers di Bill Walton, storico rivale di DT.
La stagione successiva permise a Thompson di scrivere il suo nome nei libri di storia della lega. L’ 8 aprile 1978, infatti, segnò 73 punti ai Detroit Pistons (che peraltro vinsero), di cui 51 nel solo primo tempo. All’epoca, DT fu il terzo giocatore di sempre ad andare oltre quota 70 in NBA: prima di lui solo Elgin Baylor (71 punti contro i Knicks nel 1960) e Wilt Chamberlain (sei volte, tra cui la mitica notte dei 100 punti a Hershey), poi si uniranno alla compagnia anche David Robinson (71 contro i Clippers nel 1994), Kobe Bryant (81 ai Raptors nel 2006) e Devin Booker (70 contro i Celtics pochi mesi fa). La grandissima prestazione non fu però sufficiente per vincere il titolo di miglior realizzatore, visto che George Gervin, qualche ora dopo, ne realizzò 63 contro i New Orleans Jazz e superò Thompson di qualche centesimo di punto. David si consolò con una nuova inclusione nell’ All-NBA First Team.
La corsa al titolo NBA dei Nuggets si interruppe ancora prematuramente, questa volta per mano dei Seattle SuperSonics in finale di Conference. La stella di Thompson, però, era più luminosa che mai. Ormai era considerato a tutti gli effetti il miglior giocatore al mondo (insieme a Julius Erving), e ben presto gli venne affibbiato un grande soprannome: ‘Skywalker’. Nel 1977 era esploso il fenomeno-Star Wars, e l’abitudine di David di ‘passeggiare’ nell’aria prima di schiacciare aveva reso l’associazione inevitabile. La dirigenza sentiva che con lui si poteva vincere, così gli fece firmare un contratto senza precedenti: quattro milioni di dollari in cinque anni. Per lui e per la squadra doveva essere un punto di partenza verso grandi trionfi, invece quella firma si rivelò l’inizio della fine.

David Thompson con la maglia numero 33 dei Nuggets

David Thompson con la maglia numero 33 dei Nuggets

La pressione mediatica derivata dalla crescente notorietà finì per schiacciare David, che si rifugiò sempre più di frequente tra le braccia della sua amica mortale. Il GM Carl Scheer iniziò a sospettare che qualcosa non andasse. Nel libro Loose Balls, grande opera sulla ABA di Terry Pluto, racconta: “Qualcuno mi disse che aveva dei problemi, ma io non sapevo proprio come riconoscerli. Non ci credevo: in campo era fenomenale, fuori sempre gentile e disponibile. Quando fu chiaro ciò che stava accadendo, tutti provammo ad aiutarlo, ma era troppo tardi. Prima aveva costruito la nostra franchigia, poi si era auto-distrutto”.
Inizialmente, la tossicodipendenza non sembrò influire sulle prestazioni dello Skywalker. Nel 1978/79 viaggiò a 24 punti di media e vinse anche il premio di MVP dell’All Star Game (unico giocatore nella storia ad aggiudicarsi il trofeo in entrambe le leghe). Nonostante ciò, Denver fu clamorosamente eliminata al primo turno di playoff dai Los Angeles Lakers di Kareem Abdul-Jabbar (che di lì a poche settimane avrebbero accolto Earvin ‘Magic’ Johnson).
Oltre che con i demoni personali, Thompson iniziò a fare i conti anche con gli infortuni. Un problema ai legamenti del ginocchio lo costrinse a chiudere la stagione 1979/80 dopo sole 39 partite, condannando i Nuggets all’esclusione dai playoff. Tornò più carico che mai (25.5 punti a sera nella stagione seguente), ma i suoi problemi lontano dal parquet iniziarono a farsi sentire. I continui ritardi e gli allenamenti saltati fecero infuriare il nuovo allenatore (ed ex assistente) Doug Moe, che dapprima lo tolse dal quintetto, poi lo sospese per quattro partite. La dirigenza dei Nuggets cominciò a pensare che forse David non era più in grado di portarli al titolo. Dopo che i playoff sfumarono nuovamente nel 1981 e si chiusero al primo turno l’anno successivo, fu chiaro a tutti che era il momento di cambiare. Lo Skywalker fu ceduto ai Sonics per Bill Hanzlik e una prima scelta; uno scambio certamente iniquo, ma inevitabile, per la piega sinistra che stava assumendo la carriera del giocatore più pagato al mondo.

Thompson con la maglia numero 44 dei Sonics

Thompson con la maglia numero 44 dei Sonics

A Seattle, Thompson ritrovò l’All Star Game, ma era sempre più l’ombra del fenomeno di un tempo. Il ginocchio gli diede nuovi problemi, ma furono soprattutto alcol e droga a trascinarlo nell’abisso. Disse a coach Lenny Wilkens che aveva bisogno di aiuto e fu ricoverato in un centro di riabilitazione. I Sonics dissero addio ai loro sogni di gloria, David disse addio alla sua carriera. Uscito dalla clinica, disputò altre 19 partite nella stagione 1983/84. La notte dell’11 marzo, però, si recò con alcuni compagni allo Studio 54, celebre discoteca newyorchese. Fu coinvolto in una rissa e qualcuno lo spinse giù da una scalinata. L’uomo che camminava nell’aria non era mai atterrato così male; legamenti completamente distrutti, carriera ufficialmente finita. Tentò di tornare in campo con gli Indiana Pacers, ma le visite mediche diedero un responso inequivocabile: a soli 30 anni, David Thompson era un ex giocatore. Non sarebbe mai riuscito ad incontrare sul campo il suo più celebre ammiratore, quel Michael Jordan che muoveva i primi passi della sua leggenda. La sera stessa in cui fu tagliato, venne arrestato sotto effetto di sostanze stupefacenti.

Ormai era entrato in una spirale da cui sembrava impossibile uscire. Le sue dipendenze arrivarono a consumarlo, a renderlo un fantasma. Tornò a Shelby, dove stavolta non trovò un’accoglienza da eroe, e andò presto in bancarotta. La moglie Cathy lo allontanò da sé e dalle due figlie. Thompson non riuscì a capacitarsene, la aggredì e fu condannato a sei mesi di reclusione. In carcere incontrò un pastore che lo convinse a diventare un cosiddetto ‘cristiano rinato’. Effettivamente, quella svolta segnò l’inizio della sua seconda vita. Riuscì a ricongiungersi con la famiglia e si dedicò ai giovani cestisti, aiutandoli sia dal punto di vista tecnico che, soprattutto, da quello umano.
Nel 1988 la NBA diede il benvenuto agli Charlotte Hornets, che come presidente e general manager scelsero Carl Scheer. Autentica eminenza del basket in North Carolina, Scheer assunse il suo vecchio pupillo come “direttore delle relazioni con la comunità”. Thompson era molto portato per comunicare con i più giovani, ma le continue ricadute lo portarono a nuovi ricoveri per disintossicarsi. La sua esperienza con gli Hornets terminò nel 1993. L’anno prima, i Denver Nuggets avevano ritirato il numero 33, quello con cui David era diventato ‘Skywalker’. Nel 1996 fu introdotto, insieme al vecchio rivale George Gervin, nella Basketball Hall Of Fame di Springfield. A quasi trent’anni dallo storico titolo NCAA, DT tornò a NC State. Stavolta non come giocatore, bensì come studente; si laureò in sociologia nel 2003, insieme alla figlia Erika.

David Thompson introduce MIchael Jordan nella Hall Of Fame (2009)

David Thompson introduce MIchael Jordan nella Hall Of Fame (2009)

Sulla rapida ascesa e sul brusco declino di uno degli atleti più spettacolari ad aver mai messo piede su un parquet sono stati prodotti un’autobiografia e un documentario, entrambi intitolati Skywalker. Definito da molti Michael Jordan prima che esistesse Michael Jordan, fu proprio il numero 23 dei Bulls a descriverlo al meglio: “David Thompson ha cambiato il gioco per sempre; è stato il primo high-flyer, faceva cose che nessuno aveva mai fatto prima. Credo che la grandezza sia un processo che si evolve, un’era dopo l’altra. Così come non ci sarebbe stato Kobe Bryant senza Michael Jordan, non ci sarebbe stato Michael Jordan senza David Thompson”.

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