La leggenda vuole che Gregg Popovich non volesse una point guard europea al draft NBA 2001, “a meno che il suo cognome non finisca in ‘ich’” alla slava.
Come le cose sarebbero andate lo sanno ormai tutti, 22 anni dopo e alla vigilia della doppia introduzione nella James Naismith Basketball Hall of Fame sia di coach Pop che di Tony Parker, la point guard europea scelta in quel draft solo dopo due provini separati, e che sarebbe dovuta andare ai Celtics o ai Magic. In mezzo, tra quel 2001 e il 2023, 4 titoli NBA vinti assieme, un premio di MVP delle NBA Finals nel 2007, 6 convocazioni all’All-Star Game e 3 nomine All-NBA, e il numero 9 ritirato dagli Spurs.
Dal 2023, tutto lo “stato maggiore” della più grande dinastia moderna della NBA, i San Antonio Spurs, saranno nella Hall of Fame con David Robinson, Tim Duncan e Manu Ginobili raggiunti da Popovich e Parker.
Oggi avere una poin guard o point-whatever “straniera” in squadra, da titolare e pure da superstar (Luka Doncic) è una cosa normale nella NBA, dove 4 dei primi 5 migliori giocatori sono internazionali. Nel 2001 lo era di meno.
Il titolare di quegli Spurs che dopo il titolo NBA del 1999 stavano effettuando la transizione dall’era David Robinson a quella di Tim Duncan, doveva essere Antonio Daniels, che si era guadagnato la promozione sul campo durante la stagione precedente, il 2000-01 che San Antonio aveva chiuso con un secco 0-4 dai Lakers di Shaq e Kobe in finale di conference.
Tony Parker, come ha poi raccontato lo stesso giocatore francese nel suo libro “Tony Parker: Beyond All of My Dreams” nel 2020, aveva fallito clamorosamente il suo primo provino pre-draft con gli Spurs. Popovich, che voleva essere convinto, gli mise contro il più grosso, grande e pesante Lance Blanks (“una specie di schiacciasassi“), ex giocatore NBA e all’epoca scout degli Spurs, e dopo appena 10 minuti di gioco il coach aveva visto abbastanza. Il francese è troppo acerbo, nulla da fare.
Se non che, qualcuno bisognava pur scegliere al draft, agli Spurs una point guard serviva e alla fine del primo giro, con la scelta numero 28, gli altri nomi nel ruolo erano quelli di Jamal “Mel Mel the Abuser” Tinsley, di Gilbert Arenas e di Omar Cook. Il quotato Joe Forte da North Carolina sarebbe stato scelto sicuramente prima, così come l’allora promettente spagnolo Raul Lopez, scuola Real Madrid e che gli infortuni avrebbero poi limitato.
Abbastanza per dare una seconda chance anche a Parker. Nel secondo provino, il prodotto del Racing di Parigi avrebbe fatto un’impressione decisamente migliore ancora contro Blanks, e fatto un’impressione migliore su Gregg Popovich e sugli altri scout tanto che a San Antonio, dopo aver deciso di puntare su Parker, si sarebbe diffuso il timore che qualcun altro sarebbe piombato al draft sul francese.
Se il 2001 fosse stato il 2023, ma anche solo il 2013, la moda esterofila NBA avrebbe forse portato i Celtics a scegliere Parker con la chiamata numero 21. Ma il 2001 era il 2001 e a Boston andarono su Joe Forte. Che avrebbe poi finito, ma nessuno poteva immaginarlo all’epoca, per combinare ben poco nella NBA e si sarebbe ritagliato una carriera in Europa tra Siena, Kazan, Udine, Pavia, Pistoia e Maccabi Tel Aviv, tra le varie fermate.
Non che la scelta di Tony Parker fosse stata accolta coi fuochi d’artificio, allora. Il francese era il classico progetto da fine primo giro, da valutare e soprattutto da sviluppare fisicamente al livello della NBA. Magari da lasciare un anno o due in Europa come si usava allora (e come, ad esempio, avrebbero fatto Spurs e Timberwolves con Manu Ginobili o Ricky Rubio per citare due nomi).
Sempre Parker, nel suo libro, ha raccontato di come coach Pop non si era neppure presentato a Salt Lake City alla Summer League 2001 per vederlo giocare. “Dopo il draft andai alla Summer League e avedermi c’era solo coach Mike Brown. Pop non c’era. Era la mia prima partita, avevo iniziato il riscaldamento e vidi Brown arrivare, Ricordo perfettamente tutto: ‘Mike, perché Popovich non c’è?’, ‘ha da fare’ mi rispose lui“.
“Ammetto che all’epoca ci rimasi male. Ero la point guard del futuro della squadra e il coach non si era neppure preso il disturbo di venire a vedermi alla mia prima Summer League? Allora decisi che avrei fatto uno show in campo (…) segnai 29 punti con 8 assist. Più avanti, coach Brown mi raccontò che dopo la partita chiamò Popovich e gli disse, ‘abbiamo trovato la nostra point guard per i prossimi 15 anni, devi assolutamente venire a vederlo!’. E la partita dopo, chi compare sulle tribune? Pop! (…) dopo quella partita, Popovich vide che avrei dovuto giocare da subito, senza aspettare uno o due anni. Gli serviva solo vedermi giocare“.
La realtà, come sia Popovich che Parker avrebbero raccontato negli anni a seguire, è che coach Pop aveva scelto consapevolmente di riservare al giovane giocatore francese un trattamento duro, duro ma giusto e quasi militaresco come raramente il futuro coach più vincente nella storia della NBA avrebbe più fatto. Non con Kawhi Leonard, non con Dejounte Murray, non con Tim Duncan che entrò nella NBA nel 1997 da giocatore top 25, a essere larghi (Popovich fu duro anche con Ginobili, che però al contrario di Parker in Europa era stato una superstar).
Parker ha raccontato come anche Tim Duncan al suo primo anno NBA gli riservò quello che il francese ha definito “silence treatment (…) non vinceremo mai un altro titolo con una point guard europea“. Il trattamento che Gregg Popovich avrebbe però riservato a Parker, sempre nelle parole dell’ormai Hall of Famer, “rischiava di sfociare nell’abuso verbale (…) mi diceva di togliermi la testa dal c**o, mi rivolgeva parole pesanti e imprecava parecchio. Non fu facile, mai nessun coach aveva fatto così prima“. L’allora 20enne Parker però seppe resistere: “Non ho mai risposto, e al contrario volevo reagire e mostrargli che cosa sapevo fare. Alcuni giocatori sono fatti per questo, altri no, in diversi mi hanno detto che non avrebbero mai potuto giocare per un coach che li insultasse ma a me non dava fastidio. Ho sempre pensato che lo facesse per il bene della squadra. Se un giorno avessi ritenuto che fosse stato troppo duro, il giorno dopo ne avremmo potuto parlare (…) questo non vuol dire che a volte, dopo un allenamento finissi in lacrime nella doccia. Mi dicevo che non sarei mai stato in grado di fare contento uno così, non lo sarà mai. Lui mi voleva spingere oltre il limite ma io non ne avevo. Non ho mai dato di matto di fronte agli altri, a volte mi sono chiesto se avessi voluto continuare così, con uno come lui. Non ho mai alzato la voce però con lui e non gli ho mai risposto con lo stesso tono che Pop usava con me. Piuttosto, ogni problema lo avrei sollevato con la squadra presente e il giorno dopo ne avrei parlato con lui in ufficio (…)“
“Ci aveva provato anche con altri giocatori” racconta ancora Parker nel suo libro “Ad esempio con Beno Udrih o Hedo Turkoglu ma non funzionò. Anzi ebbe l’effetto opposto, non riuscirono mai più a giocare e alla fine furono ceduti. Anche con Duncan e Ginobili era duro, ma non come con me. Una volta almeno, Popovich sfiorò il limite dell’abuso. Eravamo in sala video e lui mi stava urlando contro sostendendo che gli avessi risposto. Cercava di provocare una lite, io non risposi e lo guardai e basta. E lui mi cacciò dalla sala video, solo perché non avevo detto nulla. Fu allora che Tim Duncan prese la parola e mi difese: ‘Coach, ora basta, stai oltrepassando il limite’. Popovich allora fece uscire tutti tranne me, Duncan e Ginobili, e ci spiegò: ‘Ragazzi, non posso perdere quest’occasione per vincere. Non posso farci niente Tony, tu devi essere pronto, è per questo che sono così duro con te“.
Il trattamento duro ma giusto, senza sfociare (per poco) nel territorio di competenza del sergente Hartman di Full Metal Jacket, avrebbe dato i suoi frutti, grazie alla tenacia e alla forma mentis già abituata al lavoro e al rispetto dell’autorità di Tony Parker. Il francese sarebbe stato promosso in quintetto base da Popovich già alla quinta partita di regular season, al posto di Antonio Daniels. Posto che non avrebbe più lasciato fino al 2018 e 4 titoli NBA dopo.
Anche nel 2003 Parker e gli Spurs dovettero affrontare una crisi, quando ai playoffs Gregg Popovich gli avrebbe preferito in diverse occasioni Speedy Claxton da Hofstra, e quando San Antonio tentò di prendere Jason Kidd prima della stagione 2003-04. Tony Parker dimostrò all’epoca carattere sufficiente da resistere a una bocciatura senza mezzi termini, e tenersi il suo posto valso tanti insulti e sudore. “TP” sarebbe diventato campione NBA di nuovo nel 2005, All-Star per la prima volta nel 2006 e MVP delle NBA Finals addirittura nel 2007 dopo aver spazzato via i Cleveland Cavs del 23enne LeBron James.
“So che si è chiesto, perché vogliono Jason Kidd? Ci sono già io qui” Così Popovich nel 2004 “La NBA è un business e Tony lo ha scoperto presto, a 20, ed è stato un bene. Gli avevamo detto, proveremo a prendere Jason Kidd perché è la miglior point guard della NBA e noi stiamo cercando di creare la squadra migliore possibile. Sappilo, e vedremo di farla funzionare, sai cosa accadrà, voi dovrete imparare a giocare assieme e se non accadrà allora dovremo cederti via trade. E lui ha capito, non penso fosse contento ma ha capito, e questo lo ha aiutato a crescere“.
La risposta di Parker a Popovich sarebbe arrivata solo dopo che Kidd aveva deciso di restare ai New Jersey Nets. “Gli dissi che no, non avevo gradito (…) e Pop si arrabbiò di brutto con me, perché non glielo avevo detto subito“.
“Mi voglio scusare con te per tutti gli abusi verbali e mentali che ti ho riservato nei tuoi anni qui” aveva detto Gregg Popovich alla cerimonia del ritiro della maglia numero 9 di Tony Parker nel 2019, chiudendo un cerchio largo 19 anni. “Volevo dirtelo da un bel pezzo. La realtà è però che mi ritengo l’uomo più fortunato del mondo, personalmente, nell’averti visto crescere da quando avevi 19 anni a oggi, da quel ragazzo cui avevamo dato il pallone dicendogli, bene, da oggi guidi tu lo show. E presto saremo qui ancora assieme quando entrerai nella Hall of Fame. E’ una cosa incredibile“.