Home NBA, National Basketball AssociationApprofondimenti Imane Khelif vs. Angela Carini: quando a vincere è la disinformazione

Imane Khelif vs. Angela Carini: quando a vincere è la disinformazione

di Carmen Apadula

Di questi periodi parlano tutti di spirito olimpico. E, più che apprezzare il tutto, io sarei curiosa di sapere dove lo vedono, considerando che non ne è presente neanche l’ombra.

In questi giorni, riguardo Imane Khelif ho letto nefandezze assurde e decisamente anti-sportive. Altro che spirito olimpico.

Sono stati tanti i giornali italiani che sono caduti nella ragnatela del misgendering (attribuzione di un genere in cui una persona non si riconosce). Se ne sono sentite di ogni: c’è chi ha parlato di un “uomo” algerino che si accingeva a prendere a pugni una donna italiana, in riferimento all’imminente match contro la napoletana Angela Carini. C’è chi ha parlato di un’atleta “trans”, definendo l’incontro “ingiusto”. E tanto altro.

Basta davvero poco per rendersi conto che si tratta semplicemente di mancata volontà di restare con i piedi per terra.

E lo dico perché è successa la stessa cosa tre anni fa, ai Giochi di Tokyo 2020.

L’orco si chiamava Laurel Hubbard. Una donna (e ci tengo a sottolinearlo, una DONNA) alta, bianchissima e robusta. Una donna timida, impaurita dal casino che i giornali stavano facendo da qualche settimana. Perché anche in quel caso avevano deciso di raccontare, con il solito tono sospeso tra malizia e becera spiritosaggine, che lei era nata uomo.

Si chiamava Gavin, dicevano. Era il figlio del sindaco di Auckland e, dopo un’adolescenza “confusa”, si era avvicinata al sollevamento pesi.

Il circo del cicaleccio tipico della stampa italiana aveva deciso che Laurel era un uomo sotto mentite spoglie, e che avrebbe ammazzato la gara. Figuriamoci, poteva mai essere altrimenti?

“Quanti uomini cambieranno genere in futuro per rubare il podio a noi donne?” disse Anna Vanbellinghen, una delle avversarie. Invece Laurel collezionò tre nulli. Non riuscì a sollevare il bilanciere, fu eliminata al primo colpo e se ne tornò a casa. Felice.

L’orco di Parigi 2024 si chiama invece Imane Khelif. Una pugile algerina, vittima non solo del cicaleccio, ma anche di innumerevoli mancanze di rispetto. Perché la sua avversaria, Angela Carini si è ritirata al primo pugno in faccia, preso quando neppure si stava difendendo come avrebbe dovuto.

Per giorni si era sentita dire che avrebbe dovuto combattere con un uomo. Perché è così: la Khelif è stata scaraventata con violenza nella tana del lupo, sulle prime pagine dei giornali imbevuti del pensiero di destra. È stata definita un’atleta transgender, accettata come tale dal baraccone della disinformazione, che si è accodato alla massa per non perdere le migliori postazioni SEO. Senza neanche informarsi adeguatamente.

Solo più tardi è stata rivenduta come intersex. Ma il circuito è lo stesso, e addirittura ci appelliamo a lei come vittima di una “malattia”. Addirittura.

Eppure la valanga era partita, nessuno si è lasciato sfiorare dall’idea che non sappiamo tutto. Anzi, certe volte non sappiamo proprio niente.

Ma un’etichetta prestampata va bene, perché ci permette di buttare giù qualche riga e andare a cena con serenità. Che sarà mai la dignità di una persona.

Donna, uomo o trans? Facciamo chiarezza

Le poche cose che sappiamo sul conto di Imane Khelif sono che: è nata nel 1999 a Tiaret (Algeria), non ha affrontato alcun percorso di cambiamento di genere, ha iniziato a praticare la boxe da bambina e ha sempre gareggiato nelle categorie femminili

Se proprio vi interessa, vi dico anche che doveva farsi 10 km in autobus dal suo villaggio fino alla palestra più vicina. Per pagare il biglietto vendeva rottami metallici da riciclare, e sua madre vendeva cous cous per tirare avanti. 

Ha partecipato ai Campionati mondiali di pugilato femminile a New Delhi nel 2018 (arrivando al 17° posto), e ha gareggiato in Russia l’anno successivo.

Sappiamo che ha preso parte anche ai Giochi di Tokyo 2020 e uscì ai quarti di finale. Senza alcuno scalpore. Aveva già affrontato un’avversaria italiana, Assunta Canfora. E non era volata una mosca. 

Ma alla fine lo sappiamo. Così vanno le cose alle Olimpiadi. Nascono in modo solenne, come una grande festa dello sport, e finiscono dentro un tritacarne di scandali, allarmi terroristici, giravolte di ministri e visite di presidenti del consiglio. Ciascuno portatore del proprio interesse.

Ma torniamo alla Khelif. 

Tutto sembra filare liscio fino ai Mondiali 2023, organizzati dall’IBA (International Boxing Associaton, non riconosciuta dal Comitato Olimpico Internazionale), nei quali è stata squalificata dopo un test di idoneità di genere, che avrebbe riscontrato in lei il cromosoma XY. 

Il presidente Umar Kremlev, riferendosi a lei e alla taiwanese Yu-Ting (che si era ritrovata in una situazione simile), aveva dichiarato che stavano cercando di “ingannare le loro colleghe e di fingere di essere donne”. 

La Khelif si era difesa, parlando di un complotto politico per non farla vincere.

Ma arriviamo a Parigi 2024. La Khelif e Yu-Ting vengono ammesse alle competizioni di pugilato olimpico

Le regole di ammissione, in questo caso, vengono gestite dalla Boxing Unit, la quale ha assicurato che tutti gli atleti e le atlete che partecipano al torneo rispettano le norme di ammissibilità e di iscrizione alla competizione, oltre a tutte le norme mediche. Ciò comprende anche l’opportuna dimostrazione di certificati medici, timbrati e verificati almeno a tre mesi prima dell’inizio delle gare. 

“Queste pugili sono del tutto idonee, sono donne sui loro passaporti, sono donne che hanno gareggiato alle Olimpiadi di Tokyo e gareggiano da molti anni, penso che abbiamo tutti la responsabilità di abbassare i toni e non trasformarla in una caccia alle streghe” ha dichiarato Mark Adams, portavoce del CIO.

E infatti, il tutto si riduce proprio a questo: la Khelif partecipa ai Giochi perché è stata ammessa da precise regole, a seguito di determinati controlli

Ma le polemiche di questi giorni hanno rovinato tutto, oltre ad aver offuscato temi molto seri come quello dell’iperandroginismo (produzione eccessiva di testosterone da parte di corpi femminili) e dell’intersessualità (chi nasce mostrando caratteristiche sessuali primarie e secondarie, quindi genitali, cromosomi, ormoni non riconducibili univocamente al genere maschile o femminile), sviliti da chiacchiere da bar. 

Il dibattito è stato poi avvelenato ulteriormente, come se non fosse stato già molto delicato. E mi riferisco al tema della partecipazione delle donne transgender alle Olimpiadi, o comunque alle competizioni sportive in generale. 

Al di là di tutto, però, sta di fatto che Imane Khelif si è sempre definita donna, e il CIO la fa partecipare alle Olimpiadi in quanto tale. Non ci sarebbe altro da aggiungere. 

L’incontro più atteso finisce in pochi secondi: la ricostruzione

Il caso della Khelif è molto simile a quanto già successo a Caster Semenya, la sudafricana da medaglia d’oro sia mondiale sia olimpica nel mezzofondo. Quando cominciò a vincere, iniziarono anche i problemi. Elisa Cusma, un’italiana, disse senza vergogna che era un maschio.

Ma stavolta è stato anche peggio. Perché c’era lei. 

Giorgia Meloni ha fatto in modo di trovarsi al posto giusto nel momento giusto, appena in tempo per far sapere che gli atleti con “caratteristiche genetiche maschili” non devono essere ammessi alle gare femminili. Il motivo? Tutelare il diritto delle atlete a competere ad armi pari.

Grazie Giorgia, ora che ci hai informato della tua opinione possiamo dormire tutti più sereni.

Perché quando la Meloni crede allora di essere nel giusto, invocando competizioni “ad armi pari”, dice una cosa di cui lo sport non si occupa. Le armi pari con i corpi non esistono. 

Michael Phelps aveva un’apertura alare di 2.03 metri. Detiene il maggior numero di medaglie nella storia delle Olimpiadi, con 23 ori. Possedeva un vantaggio fisico? Sì. E chi stabilisce se era iniquo o meno?

Victor Wembanyama, è alto 225 centimetri e ha un’apertura alare di 2.50 metri. Possiede un vantaggio fisico? Sì. Nei giorni scorsi è stato fotografato mentre incrociava i passi del giapponese Yuki Togashi, alto 167 centimetri, proprio nell’ambito di queste Olimpiadi. Non sono certo “armi pari”.

Così come nel caso di Miguel Indurain, 8 litri di capacità polmonare senza che fosse intervenuto sul corpo ricevuto alla nascita. Eppure, nessuno ha mai pensato di escludere Indurain, Phelps, Wembanyama dalle loro competizioni. 

Lo sport è fatto di regole. Non di armi pari. E la Khelif non ha infranto nessuna di queste regole.

Non è neanche imbattibile, se proprio la dobbiamo dire tutta. Dei 14 incontri da lei disputati nell’arco della sua carriera, ne ha persi 5. È successo, per esempio, durante le Olimpiadi di Tokyo 2020, quando fu eliminata ai quarti dall’irlandese Kellie Anne Harrington. Successivamente, è stata battuta ancora e sempre da un’irlandese: ai Mondiali 2022, a Istanbul, contro Amy Broadhurst.

Alla fine, il discusso incontro con la Carini, è durato solo 46 secondi. La napoletana ha deciso di ritirarsi dopo il primo pugno, accusando troppo dolore. Perché evidentemente non ha resistito alla pressione di chi ha deciso di farne un baluardo della “purezza” e del “oh signur, dove andremo a finire”.

Quando un incontro di boxe diventa una questione politica

Solo oggi in Italia scopriamo che esistono persone intersessuali.

La Carini ha perso, ma non perché la Khelif sia intersessuale, non perché ha il cromosoma Y nel suo corredo (siccome non esiste alcuna prova certa di questa affermazione), non perché ha il testosterone alle stelle e neanche perché non è una brava pugile. 

Angela Carini ha perso perché i vari Andrea Abodi, Matteo Salvini e tutti gli italiani che stanno seguendo i Giochi come fossero al bar o come se stessero guardando Sanremo le hanno scaricato addosso 30 anni di oscurantismo, di cupa ideologia di un paese che va sempre più ingrigendosi. 

Aver identificato la Khelif come un’atleta transgender è un’impronta digitale su questa storia. È la traccia di un’intenzionalità politica, in linea con la normativa che ostacola la pratica sportiva delle persone che affrontano un percorso di transizione di genere. Non solo al vertice, non solo alle Olimpiadi, ma anche alle base, come accade negli Stati americani a guida repubblicana. 

Per Angela Carini si è mobilitato anche Elon Musk. Serve davvero dire altro?

In Algeria è vietata la riassegnazione di genere, così come l’omosessualità. Sarebbe bastato reperire queste due semplici informazioni per pensare che fosse assurdo che un Paese omofobo e transfobico avesse, non solo consentito a un’atleta di fare la transizione e di cambiare i documenti, ma pure di partecipare alle Olimpiadi sotto la propria bandiera. 

Eppure per giorni, sui media italiani, non si è fatto altro che parlare di “trans” o “un algerino” che picchia una donna italiana. Il match è stato paragonato a una forma di violenza sessista. 

Imane Khalif è stata dipinta come un mostro, non come un’atleta che è sul ring per battersi.

E la destra italiana non ha fatto che avvalorare un’argomentazione tipicamente transfobica: le donne trans sono imbroglione, e si fingono ciò che non sono per fare del male alle donne “vere”. E, ancora peggio, questa idea è diffusa anche al di là dello sport. Si trova al centro di tutto il dibattito sull’accesso ai bagni e agli spogliatoi per le persone trans, alimentato anch’esso da fake news.

È una questione gigantesca e complessa, che ciascuno avrebbe il dovere di affrontare con responsabilità, vocabolario adatto, propensione al dubbio. 

Pur di cavalcarla, Ignazio La Russa è stato disposto a rinnegare la storica inclinazione della sua parte a far coincidere l’onore col coraggio: brava la Carini a ritirarsi, ha detto. Però poteva almeno salutare l’avversaria. Ma sarà comunque ricevuta al Senato, magari sarà candidata a qualcosa e dopo addio. Nulla di tutto questo risolverà la questione. Nulla di tutto questo sarà stato utile a qualcuno. Né alla Khelif, né a tutto lo sport in generale. 

E se la Carini non voleva farsi male, poteva tranquillamente scegliere di dedicarsi ad un’altra disciplina. Gli scacchi ad esempio. 

 

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