Brandon Jennings, Emmanuel Mudiay, Thon Maker. Ruoli diversi, giocatori diversi, ma una cosa in comune: sono gli unici giocatori provenienti da high school americane dal 2006 a oggi ad aver messo piede su un campo NBA (per Thon per ora si parla di preseason, ma presumibilmente avverrà all’esordio dei suoi Bucks il 26 Ottobre contro gli Hornets) senza giocare al college.
I primi due, rispettivamente nel 2008 e nel 2014, decisero di giocare all’estero un anno invece che andare all’università, per motivazioni economiche più che sportive e presto verranno imitati dalla promettente guardia Terrence Ferguson, che nonostante avesse espresso il suo intento di giocare per la University of Arizona (guarda caso come il buon Brandon) ha optato per firmare per gli Adelaide 36ers, che militano nel campionato australiano. Per Thon invece il discorso era completamente diverso, infatti ha deciso di fare un anno in più di high school (il cosiddetto “postgraduate year”) a causa delle sue prestazioni sui banchi di scuola, nettamente inferiori di quelle sui campi da basket, che non gli avrebbero permesso di iscriversi ai college di Division I.
Nonostante le motivazioni fossero sostanzialmente diverse, negli ultimi anni stiamo vedendo quindi un trend in crescita: sempre più spesso alcuni dei giocatori più in alto nei rankings della propria classe di reclutamento stanno optando per non andare al college e fare il grande salto verso la NBA un anno più tardi.
I numeri ancora non sono talmente elevati da diventare un problema per la NCAA o la NBA stessa, ma dato che in questi giorni la NBPA (l’associazione giocatori) e la lega stanno discutendo il prolungamento del CBA (collective bargain agreement) e uno dei temi caldi è proprio la ristrutturazione dello stipendio dei rookie, che al momento incide pochissimo a livello percentuale sugli stipendi totali delle varie squadre (basti pensare che la prima scelta assoluta Ben Simmons questa stagione guadagnerà presumibilmente 6 milioni di dollari circa e Mozgov 16), perché non considerare anche la reintroduzione della possibilità da parte dei giocatori di dichiarare la propria eleggibilità al draft alla fine degli studi liceali? Certamente è molto complicato e nella equazione entrano diversi fattori in gioco, uno su tutti la NCAA, che potrebbe perdere parte del proprio appeal, ma penso di avere una possibile proposta che in linea di massima potrebbe accontentare tutte (o quasi) le parti in causa.
La “rivoluzione gentile”
Parte fondamentale e punto cruciale perché ciò che mi appresto a spiegare possa accadere è il fatto che ogni franchigia NBA possieda una franchigia affiliata della D-League. Attualmente 27 squadre su 30 ne possiedono o ne possederanno una entro i prossimi due anni, quindi non si parla di un futuro poi così remoto.
Attualmente la lega minore della NBA non è molto seguita, se non dai GM e dagli allenatori delle varie squadre, nella quale “parcheggiano” giocatori acerbi, appena ritornati da gravi infortuni o semplicemente desiderosi di mettersi in mostra per ottenere un posto dei 15 che compongono il roster della franchigia.
Tutto questo cambierebbe se a giocarci fossero alcuni dei giocatori più promettenti del panorama cestistico degli USA.
Ebbene sì, la mia proposta è quella di far giocare per un anno in D-League i giocatori che hanno deciso di dichiararsi eleggibili al draft dopo gli studi liceali, senza la possibilità di essere aggiunti a stagione in corso al roster NBA. Lo so, anche solo scriverlo sembra quasi blasfemo, essendo abituati a giudicare la D-League come sostanzialmente una lega di livello basso, inferiore a un buon numero dei campionati europei. Ma fermiamoci un attimo ad analizzare ai vantaggi che avrebbero le parti coinvolte.
I giocatori
Dire che per i novellini della lega che vogliono fare il grande salto senza passare dal college sarebbe un cambiamento positivo è riduttivo: potrebbero concentrarsi al 100% sul basket giocato, senza dover presenziare alle lezioni, e verrebbero seguiti da uno staff di allenatori, assistenti, preparatori e chi più ne ha più ne metta della squadra che li ha scelti, dando loro l’opportunità di crescere in un ambiente per certi versi più protetto rispetto al battesimo di fuoco della NCAA.
Inoltre giocare con e contro atleti professionisti nella D-league, seppur di livello inferiore alla NBA, che sicuramente offrono un livello di gioco più alto e difese più organizzate rispetto a quelle del college è un’opportunità non da poco per la loro crescita tecnico-tattica.
E chissà che non possano nascere delle vere e proprie rivalità tra i rookie di franchigie rivali, come possono essere ad esempio le due di Los Angeles, ancora prima di mettere piede nella lega. Da non sottovalutare è anche il fatto di poter uscire dal contratto da rookie un anno prima rispetto a coloro che sono andati al college per un anno, quindi potrebbero potenzialmente guadagnare più soldi.
Franchigie
Che giocatore sarebbe oggi Leonard se avesse avuto l’opportunità di essere allenato da Pop fin da quando non gli era ancora permesso di bere legalmente? Certo, è fantabasket, ma sicuramente le franchigie avrebbero enormi vantaggi nel poter crescere i giovani in casa, dove possono fin da subito abituarli agli schemi e plasmarli per poter essere preparati al meglio per la prima palla a due della stagione successiva. Verrebbero in questo modo a crearsi delle vere e proprie academy, che farebbero le fortune delle squadre più lungimiranti, che investono maggiormente nello scouting e nel miglioramento dei giocatori.
Lega
La NBA da una vera e propria rivoluzione del genere ci guadagnerebbe soprattutto in termini economici: il prodotto “D-League” infatti sarebbe molto più spendibile sul mercato e le reti televisive si “scannerebbero” tra loro per avere la possibilità di trasmettere le partite in cui i migliori prospetti della nazione guidano i loro team e si sfidano tra di loro. In questo modo sicuramente la lega guadagnerebbe ancora più soldi da diritti televisivi e pubblicità, andando ad arricchire di conseguenza le franchigie e i giocatori stessi. Guadagni più elevati, inoltre, permetterebbero di aumentare il valore dei contratti della D-League, attirando così giocatori di buon livello da tutto il mondo che avrebbero migliori chance di mettersi in mostra di fronte a scout NBA.
Fans NCAA
Il basket universitario negli USA si sa, è una cosa seria. Ogni ragazzo giovane americano cresce sognando di giocare per l’università del suo stato e vincere un titolo NCAA, magari proprio contro la squadra rivale. Nell’era dei “one and done” per un tifoso NCAA, soprattutto delle università più blasonate dal punto di vista cestistico, è difficile legarsi ad un determinato giocatore sapendo che questo se ne andrà comunque dopo pochi mesi verso la NBA. Con un sistema come quello di cui stiamo parlando, la maggior parte degli studenti-atleti rimarrebbero in media più anni a giocare per la propria alma mater, poiché la stragrande maggioranza di coloro che hanno già deciso di compiere il grande salto lo farebbero direttamente dalla high school. Cosa non da poco, le rivalità tra le squadre verrebbero ancora più sentite, dato che si ritroverebbero a sfidarsi per diversi anni numerosi giocatori, dando vita a sfide epiche e altrettanto esaltanti rivincite.
Come per ogni cosa, c’è il rovescio della medaglia: la NCAA probabilmente nei primi anni dalla riforma perderebbe parte del suo appeal, dato che molti dei giocatori di punta degli ultimi anni sono stati freshmen. Non a caso sarebbe un bel grattacapo almeno all’inizio, in particolar modo per gli allenatori (vedi Calipari, John) che si ritroverebbero a dover fare un lavoro di scouting ancora più maniacale e di miglioramento interno della squadra che è difficilmente sostenibile per questioni di tempistica (dovendo seguire le lezioni, i giocatori NCAA non hanno poi così tanto tempo per allenarsi) se vogliono mantenere gli standard qualitativi dal punto di vista tecnico mantenuti nelle scorse stagioni.