Quello europeo è un basket che non ha mai smesso di evolversi. In principio fu l’URSS, che da sola contendeva il titolo agli USA e ogni tanto aveva pure la meglio. Poi venne la Jugoslavia, un campionato in cui, come ricorda Sergio Tavcar, i primi denari importanti iniziarono ad entrare quando già si era formata una struttura composta esclusivamente di gente che nel basket ci era cresciuta. Parallelamente Italia e Spagna ogni tanto avevano messo in discussione il solido trinomio, con qualche altra estemporanea eccezione come Cecoslovacchia, Grecia o Israele.
Poi, la caduta del Muro di Berlino aveva rimesso in gioco tutto. Era comparsa la Lituania, poi si erano separate le repubbliche della Jugoslavia e ne erano nate la Croazia e quella che dal 2006 è ufficialmente conosciuta come Serbia. La Spagna aveva lavorato bene restando al vertice, la Russia ci era tornata da sola, la Grecia si era stabilizzata, mentre l’Italia tragicamente perdeva posizioni perché, come ricorda il coach di football Bill Parcells, “In un ambiente competitivo restare fermi equivale a regredire”.
L’Eurobasket del 1993 era stato una sorta di cometa: aveva perso Drazen Petrovic alla vigilia ed era stato vinto dalla Germania, neo-riunita e allenata da Svetislav Pesic, ancora oggi sulla cresta dell’onda mentre molti colleghi dell’epoca sono sul viale del tramonto. Nello stesso anno l’altra grande potenza europea con il Limoges allenato dal croato Maljkovic, vinceva la Coppa Campioni FIBA. Da questa connection tra l’Esagono e i Balcani parte la nostra storia.
Il basket in Francia: le basket
“La vera rivoluzione avvenne con l’arrivo di un allenatore francese Herl Elmerich: venne a Belgrado perché c’era un accordo di collaborazione tra i governi di Francia e Jugoslavia. In tre anni ci portò al terzo posto del mondiale di Argentina del ’50 in cui c’ero anch’io”. Lo abbiamo salutato nel marzo del 2020, Boris Stankovic, rivoluzionario coach e poi segretario generale della FIBA dagli anni Settanta fino al 2003, quando passò la mano vedendo che le sue grandi abilità diplomatiche non bastavano più ad assicurare stabilità alla federazione internazionale.
Proprio da lui, in questo passo dell’intervista rilasciata a Marco Valenza nel libro Slavi d’Italia, scopriamo che il basket francese è all’origine di quello jugoslavo, per antonomasia il migliore del Vecchio Continente nella produzione di giocatori ovvero, di fatto, pilastro delle fondamenta stesse del basket extra-USA. Dopo qualche indagine scopriamo che, sì, è proprio vero, la Francia è stata un passaggio cruciale per importare da questa parte dell’Oceano Atlantico la palla a spicchi.
Resta un mistero come mai non si sia affermato subito, e abbia dovuto aspettare la fine della Guerra Fredda, anzi l’avvio dell’Era Digitale. È vero, tre bronzi europei li aveva ottenuti tra il 1951 e il 1959, oltre a quello del 1937 e l’argento del 1949, quello giocato… al Cairo, e vinto dall’Egitto allenato da Nello Paratore, paisà nato proprio nella terra dei faraoni da genitori catanesi e poi colonna portante del basket italico come lo era stato per la federazione della nazione natia. Dopo quegli exploit però i Bleus si erano sempre piazzati nel range tra il quarto e il tredicesimo posto.
Nella società dell’intrattenimento che stava conoscendo sempre più vigore, a catturare l’immaginario collettivo nell’Esagono erano altri sport. Il calcio con stelle conosciute come Kopa o Platini, il ciclismo, il rugby. Un’epoca in cui il basket francese era senza campioni: scriveva il già menzionato Sergio Tavcar nel suo libro del 2010 La Jugoslavia, il basket e un telecronista che i transalpini all’Eurobasket del 1985 “avevano un giocatore, Ostrowski, e mezzo, Dacoury”.
Parker? Par coeur
Flash forward. Ad inizio 2020, in un momento di ozio, ci siamo messi a fare il computo delle medaglie vinte dalle squadre europee nei tornei tra nazionali dal 2000 in avanti (quindi tolte le Olimpiadi di Sydney, che furono giocate ancora con il regolamento precedente). La data non è casuale: l’avvento del nuovo millennio ha infatti portato cambiamenti cruciali di regole in seno alla FIBA, nella fattispecie l’avvento dei ventiquattro secondi in luogo dei trenta e quattro tempi invece che due.
Ora, a parte notare che tolte le compagini del Vecchio Continente solo USA e Argentina sono andate sul podio, e questo dovrebbe far riflettere non poco la FIBA sulla effettiva competitività del proprio ambiente, il computo così recitava: una medaglia Slovenia; due Germania, Italia e Turchia; tre Grecia e Russia; cinque Lituania; sei Francia e Jugo/Serbia; tredici Spagna.
Dei cannibali iberici magari ci occuperemo un’altra volta, ma è interessante come la seconda piazza sia a pari merito tra i serbi, di cui abbiamo già detto, e proprio i francesi. Come si è passati da “un giocatore e mezzo” a sei medaglie in trentacinque anni? C’è voluto occhio, pazienza e… beh, sì, anche la terza componente citata da Arrigo Sacchi ha dato il suo contributo. Ad esempio a far sì che Tony Parker, nato in Belgio da padre giocatore ma cresciuto in Francia, decidesse di sposare la causa dei Bleus invece che quella dei rivali fiamminghi, e quella del basket invece che del calcio. Il risultato fu la nascita di un giocatore formidabile, rapido nello stretto e fisicamente dotato tanto da poter andare spalle a canestro in post basso. La visione di gioco era rivedibile nei primi anni di carriera e poi si è affinata, la testa nei momenti caldi ha imparato a restare lucida.
Naturalmente Parker è stato la punta di diamante, ma non è stato da solo. Prima è stato guidato per mano da Antoine Rigaudeau, ne ha preso il mantello e a sua volta ha supportato Nando De Colo nella sua affermazione come uno dei migliori play d’Europa. I due méneurs sono stati i nocchieri di una nazionale che ha saputo esprimere individualità notevoli che man mano hanno saputo amalgamarsi in un compagini davvero superlative per completezza. Guardie capaci di giocare in pick&roll e di colpire da fuori come Thomas Heurtel, Antoine Diot e Fabien Causeur; esterni fisici e bidimensionali come Mickael Piétrus, il suo omonimo Gelabale, Boris Diaw; tiratori temibili da fuori come le ali Nicolas Batum o Florent Piétrus; lunghi atletici come Ronny Turiaf, Joakim Noah, Kevin Seraphin, e poi Joffrey Lauvergne e Rudy Gobert.
Dal 2009 tutto questo ben di Dio è stato affidato a Vincent Collet, che proprio in quell’anno ha vinto il suo ultimo campionato francese ma non per questo è stato delegittimato dalla federazione transalpina. Una federazione che ha saputo ben dosare la politica del integrativa del blanc, black, beur (quest’ultimo in realtà pressoché assente) implementandola in una programmazione mirata. Il risultato è che, riferisce qualche addetto ai lavori, le selezioni giovanili non portano i migliori prospetti nei tornei di categoria, preferendo far acquisire esperienza ad altri potenziali giocatori.
Così, nel basket in espansione ma in realtà non abbastanza, la Francia ha ottenuto da quest’anno un posto nella nuova Eurolega, è divenuta terra di opportunità (Nicola Alberani a Strasburgo, come fece Daniele Baiesi in Germania) e si pone dunque come una possibile nuova frontiera del basket europeo. Non male, per chi nel 1985 aveva un giocatore e mezzo.