“Se mi è piaciuto The Last Dance? Non tanto“, parola di Scottie Pippen che in un’intervista al Guardian ha parlato a lungo della serie evento targata ESPN sui Chicago Bulls della stagione 1997\98 e su Michael Jordan.
Pippen è stato per i 10 episodi della serie, trasmessa in Italia su Netflix, uno dei personaggi ovviamente principali attorno a MJ, l’uomo attraverso cui l’intero processo di produzione del documentario è passata. Pippen ha aggiunto che Jordan ha accettato senza problemi le critiche dell’ex compagno di squadra “Mi ha solo detto: ‘hey, forse ha ragione!’“.
“Da Pip”, l’uomo che con i Bulls e assieme a Jordan e Phil Jackson vinse 6 titoli NBA tra 1991 e 1998, ha parlato di The Last Dance come di un prodotto “non così accurato se si tratta di definire cosa abbia realizzato una delle più grandi squadre in un’era di grande pallacanestro, e che cosa abbiano compiuto due grandi giocatori di basket. Tutto questo non è emerso nel documentario, credo sia stata più un’opera che è servita a Michael per ‘elevarsi’ e glorificarsi. Forse in un certo senso è stato anche controproducente perché ha dato alle persone una chance di conoscere parte della sua personalità“.
Almeno due episodi della serie sono dedicati in gran parte alla figura di Scottie Pippen: il secondo, con gli strascichi polemici per il mancato rinnovo di contratto di un sottopagato Pippen nel 1997 e la crisi con l’allora general manager Jerry Krause, e il settimo, dove si ripercorrono le due stagioni dal 1994 al 1995 in cui Jordan si ritirò per giocare a baseball e Pippen divenne il faro dei Bulls.
Ai playoffs del 1994 contro i New York Knicks, Pippen si rifiutò nel finale di gara 3 di entrare in campo per l’azione finale dei Bulls, perché Jackson aveva designato Toni Kukoc per l’ultimo tiro. Un episodio su cui la serie insiste: “Ma sono passati più di vent’anni, non sarebbe stato utile tornarci solo per promuovere la serie, così come parlare di altri incidenti dell’epoca (…) ci furono momenti in cui mi sentii deluso, ma quello fu un periodo con tante gioie e momenti positivi, da celebrare“.
“Non ho mai avvertito troppo la pressione perché non ho mai dato ascolto alle voci. Ho sempre giocato al meglio per me e per i miei compagni in campo, non mi è mai importato troppo di cosa pensasse la gente di me, e di come pensava giocassi. Fuori dal campo mi sono sempre goduto la mia privacy (…) certo, i livelli di competizione che mi ha dato il basket non si possono sostituire“.