Come sono nati gli attuali Golden State Warriors di Steve Kerr, di Steph Curry, di Draymond Green e Klay Thompson? Per risalire agli attuali fasti, occorre andare indietro con la storia e guardare dal 2010 ad oggi. Cos’è successo di particolare nella Baia per portare alla nascita di una delle dinastie più grandi della storia del basket NBA?
Le origini dei Golden State Warriors
Nell’estate del 2010, la NBA era nelle mani di Kobe Bryant e LeBron James. Il Black Mamba aveva appena vinto il suo quinto titolo con i Los Angeles Lakers (il secondo senza Shaquille O’ Neal) e puntava con ferocia al sesto, che gli avrebbe permesso di eguagliare Michael Jordan, sua vera e propria ‘ossessione’. King James, nominato MVP per la seconda volta in carriera, aveva scelto di voltare pagina, annunciando in diretta televisiva il suo passaggio dai Cleveland Cavaliers ai Miami Heat. Il futuro sembrava ormai scritto: i due fenomeni erano destinati ad affrontarsi nella ‘battaglia finale’ per il dominio della lega. Con i riflettori puntati su Hollywood e South Beach, in pochi facevano caso a quanto stesse accadendo nella Bay Area. Eppure, in quei giorni di fuoco, i Golden State Warriors stavano gettando le basi per una nuova dinastia.
Per decenni, gli Warriors erano stati una franchigia terribile. L’unico titolo in terra californiana (fino al 1962 giocavano a Philadelphia) era arrivato nel 1975, dopodiché era iniziato un lungo inverno. Gli unici raggi di sole erano stati portati, in epoche diverse, da Don Nelson; nei primi Anni ’90, i ‘Run-TMC’ (Tim Hardaway, Mitch Richmond e Chris Mullin) entusiasmarono l’allora Oakland Coliseum Arena e, nella stagione 2006/07, la squadra del ‘We Believe’ eliminò a sorpresa i favoritissimi Dallas Mavericks dell’MVP Dirk Nowitzki, salvo poi uscire al secondo turno contro gli Utah Jazz (in una serie marchiata a fuoco dalla poderosa schiacciata di Baron Davis su Andrei Kirilenko).
Nel 2009, l’ennesima annata negativa si era tradotta nell’assegnazione della settima scelta al draft, con la quale Golden State selezionò uno smilzo playmaker di nome Stephen Curry. Anche i Minnesota Timberwolves erano alla ricerca di una point guard, così spesero la quinta e la sesta chiamata per Ricky Rubio (ok, ma…) e Jonny Flynn (com’era quella storia delle sliding doors?). D’altronde questo Curry, nato ad Akron (Ohio) e cresciuto tra Charlotte e Toronto, dove il padre Dell fulminava retine con le maglie di Hornets e Raptors, non lo conosceva quasi nessuno. Il suo fisico gracile gli aveva negato le attenzioni dei grandi atenei e l’unico a dargli fiducia era stato coach Bob McKillop, che lo aveva fortemente voluto nei suoi Davidson Wildcats. Nei tre anni passati al college, Steph aveva stracciato innumerevoli record, tra cui quello per il maggior numero di triple realizzate in una stagione (162, nel 2007/08), ma non per questo veniva considerato uno dei prospetti di punta di quel draft. Tra coloro che ne erano rimasti maggiormente impressionati c’era Steve Kerr, presidente e general manager dei Phoenix Suns. Dato che Amar’e Stoudemire, stella di quei Suns, sembrava in procinto di lasciare l’Arizona, le due franchigie accennarono una trattativa. Nel pacchetto che sarebbe finito a Phoenix avrebbe dovuto esserci anche il giovane Curry, ma la ferma opposizione di Don Nelson fece saltare l’accordo. In quei giorni, sul sito Bleacher Report comparve un articolo, firmato K. Shakran, in cui l’autore si chiedeva: “Come potrà mai Curry rendere gli Warriors una contender, in futuro?”.
La stagione da matricola di Steph aveva giustificato l’ostinazione del vecchio ‘Nellie’: 17.5 punti di media sfiorando il 44% da oltre l’arco, cifre che gli erano valse il secondo posto (dietro a Tyreke Evans) nella corsa al Rookie Of The Year Award. Nonostante le incoraggianti prestazioni del nuovo numero 30, il 2009/10 degli Warriors era stato l’ennesimo disastro: 26 vittorie e 56 sconfitte. Era il momento giusto per una rivoluzione.
Lo scossone nel 2010 dei Golden State Warriors
Il primo scossone di quell’estate 2010 fu l’innesto di David Lee, arrivato da New York in cambio di Anthony Randolph, Ronny Turiaf, Kelenna Azubuike e una seconda scelta futura. Vera e propria ‘macchina da doppie-doppie’, Lee era cresciuto costantemente in maglia Knicks, fino a guadagnarsi la convocazione all’All-Star Game 2010. Altre new entry furono il tiratore Dorell Wright e il lungo Ekpe Udoh, sesta scelta del draft. Il ringiovanimento del roster fu solo una minima parte del radicale cambiamento. Coach Nelson rassegnò le dimissioni, lasciando il posto all’ex-assistente Keith Smart, e la proprietà della franchigia passò nelle mani di una cordata presieduta da Peter Guber (numero uno della casa di produzione cinematografica Mandalay Entertainment) e Joe Lacob (già socio di minoranza dei Boston Celtics). Come per molte altre ‘rivoluzioni’ della storia NBA, il processo si completò con l’introduzione di nuove divise: abbandonati i colori e le grafiche che avevano accompagnato gli anni mediocri del post ‘Run-TMC’, si tornò ai classici blu, giallo e bianco con cui Rick Barry e compagni avevano trionfato nel 1975. Al centro, la sagoma del Bay Bridge, il ponte che collega Oakland e San Francisco.
Nella stagione 2010/11, gli Warriors mostrarono netti segnali di crescita. David Lee ebbe un impatto eccellente e Steph Curry migliorò media punti (18.6) e percentuali, ma l’idolo incontrastato dei tifosi era Monta Ellis, principale lascito dell’era ‘We Believe’. Scelto per quarantesimo al draft 2005, sotto l’egida di Don Nelson aveva bruciato rapidamente le tappe: dopo la nomina a Most Improved Player Of The Year nel 2007, si era imposto come leader assoluto della squadra. In quel 2010/11 non furono sufficienti gli oltre 24 punti di media e nemmeno l’acclamazione popolare, per farlo partecipare al suo primo All-Star Game. Così come non bastarono i lampi dei giovani ‘Big Three’ per riportare Golden State ai playoff; la regular season fu chiusa a 36 vittorie, 10 in più rispetto alla stagione precedente, ma i californiani non andarono oltre il dodicesimo piazzamento. Malgrado l’ennesimo bilancio negativo, quell’annata inserì per la prima volta il nome degli Warriors nei libri dei record balistici. Nella vittoria contro gli Orlando Magic dell’11 marzo vennero realizzate 36 triple combinate (primato NBA dell’epoca), 21 delle quali segnate da Golden State (record di franchigia). Dorell Wright ne mandò a bersaglio 194 nell’arco della stagione, come nessun altro Warrior fino a quel momento. Bazzecole, rispetto a quello che sarebbe successo di lì in avanti…
Golden State Warriors, l’arrivo di Mark Jackson
La nuova proprietà decise che Keith Smart non era l’allenatore adatto per il loro progetto, dunque lo sostituì con Mark Jackson. Dopo diciassette stagioni da professionista NBA, Jackson si era dedicato alla sua attività di reverendo (esercitando regolarmente le sue funzioni nella comunità di Reseda, California) e all’analisi delle partite per conto dell’emittente televisiva ABC. La scelta di Guber e Lacob di affidare la panchina a una figura senza esperienza da head coach fu accolta con un certo scetticismo dagli addetti ai lavori. Non sarebbe stata l’ultima volta.
Con l’undicesima chiamata al draft 2011 venne selezionato Klay Thompson, guardia tiratrice da Washington State University. Un altro figlio d’arte, come Curry: il padre Mychal, prima scelta assoluta nel 1978, aveva vinto due titoli NBA con i Lakers dello ‘Showtime’. Klay fu scelto dagli Warriors subito dopo che i Sacramento Kings ebbero optato per un altro tiratore, Jimmer Fredette, che dopo una grande carriera collegiale, sarebbe sparito dai radar NBA nel giro di pochi anni. La off-season 2011 vide anche l’ingresso nel front-office di Jerry West, in veste di consulente e socio di minoranza.
Per verificare sul campo gli effetti della nuova guida tecnica si dovette aspettare più a lungo del solito; il lockout sospese i giochi fino alla notte di Natale. Quando finalmente si ripartì, fu chiaro che agli Warriors mancasse ancora qualcosa; il roster era pieno di esterni di talento e prospettiva, ma non presentava un vero lungo ‘di peso’. L’obiettivo si chiamava Andrew Bogut, prima scelta assoluta al draft 2005, e per ottenerlo (insieme all’ex-Warriors Stephen Jackson, subito girato a San Antonio) venne compiuto un ‘sacrificio’ del tutto incomprensibile, all’epoca; ai Milwaukee Bucks finirono Ekpe Udoh, Kwame Brown (ingaggiato solo tre mesi prima) e… Monta Ellis!
La notizia fece imbufalire i tifosi Warriors; Ellis stava disputando un’altra ottima stagione. Il 7 febbraio aveva ritoccato il suo massimo in carriera, rifilando 48 punti agli Oklahoma City Thunder e l’11 marzo, due giorni prima dello scambio, era stato nominato Giocatore della Settimana per la Western Conference. A rendere ancora più incandescente il clima nel nord della California ci pensò il calendario; il 16 marzo, i Bucks si presentarono alla Oracle Arena e l’ex idolo di casa contribuì con 18 punti alla vittoria di Milwaukee. In quegli stessi giorni, un altro ex-Warriors appariva su tutte le copertine. Jeremy Lin, semplice ‘comparsa’ nella Bay Area, aveva conquistato il Madison Square Garden a suon di prestazioni roboanti e giocate decisive; era esplosa la ‘Lin-Sanity’.
Nel frattempo, Golden State sprofondava. Chiuse la stagione ‘ridotta’ 2011/12 con 23 vittorie e 43 sconfitte, per un altro tredicesimo posto nella Conference occidentale. La cessione di Monta Ellis era stata voluta anche per garantire più minuti e responsabilità alla giovane coppia Curry – Thompson, ma Steph si era dovuto fermare dopo appena 28 partite; i continui problemi alle caviglie (soprattutto a quella destra) avevano reso indispensabile un intervento chirurgico. La carriera del ragazzo da Davidson sembrava destinata a terminare da un momento all’altro, stroncata da un fisico non all’altezza del suo talento. Fu per questo che, quando al giocatore venne offerto un rinnovo quadriennale da 44 milioni di dollari, qualcuno gridò alla follia. In pochi potevano immaginare che, grazie a quel contratto, sarebbe stato possibile assemblare una macchina da pallacanestro senza eguali.
Il draft 2012 dei Golden State Warriors di…Bob Myers
Gli Warriors si presentarono al draft 2012 con un nuovo general manager (Larry Riley fu sostituito dal suo ex assistente, Bob Myers) e con ben quattro scelte, tre delle quali ottenute tramite scambi pregressi. L’unica chiamata ‘di proprietà’ era la settima, con la quale fu selezionato Harrison Barnes, talentuosa ala da North Carolina. Alla numero 30 toccò a Festus Ezeli, centro da Vanderbilt, mentre un suo pari-ruolo, il serbo Ognjen Kuzmic, venne pescato con la numero 52. La trentacinquesima scelta fu spesa per un giocatore senza tiro e senza ruolo; troppo piccolo per fare l’ala forte, troppo lento per essere schierato da esterno. Compensava le evidenti lacune tecniche con una determinazione e una comprensione del gioco fuori dal comune, doti che avevano aiutato non poco i suoi Michigan State Spartans a raggiungere per due volte le Final Four NCAA. Si chiamava Draymond Green e sarebbe diventato il leader carismatico degli Warriors negli anni della dinastia.
L’idea iniziale di Myers e soci era quella di coltivare con pazienza il giovane nucleo, circondandolo di affidabili veterani. A tal proposito furono ingaggiati Jarrett Jack, Carl Landry e Richard Jefferson. Una serie di infortuni complicò presto i piani. Con Brandon Rush e Andrew Bogut ai box per gli ennesimi guai fisici delle loro tormentate carriere, Mark Jackson fu costretto a schierare dall’inizio Barnes ed Ezeli e i due rookie risposero alla grande. Per Draymond Green, invece, non c’erano speranze: il titolare indiscusso era David Lee, che nel febbraio 2013 conquistò con pieno merito il suo secondo All-Star Game.
Il nativo di St. Louis fu l’unico rappresentante dei Golden State Warriors al Toyota Center di Houston. Tra lo stupore generale, infatti, dalle selezioni rimase nuovamente escluso Steph Curry. Per il ‘baby-faced assassin’, il 2012/13 fu comunque la stagione della svolta. Il 27 febbraio incantò il Garden con una prova da 54 punti e 11 triple, comunque insufficiente a Golden State per evitare la sconfitta, al doppio overtime, contro i Knicks. Il 12 aprile, Steph confermò la sua particolare attrazione per i grandi palcoscenici piazzandone 47 allo Staples Center. Quella partita, un’altra sconfitta per gli Warriors, verrà ricordata soprattutto per l’infortunio al tendine d’Achille che rovinò il finale di carriera a Kobe Bryant ma, a posteriori, può essere considerata una sorta di ‘passaggio di testimone’. Mentre il Black Mamba lavorava sodo per rimettersi in piedi, Curry si imponeva come il giocatore più elettrizzante della lega.
In quel 2012/13 mise a segno 242 triple, distruggendo il record che Ray Allen aveva stabilito sette anni prima. Vista la contemporanea esplosione di Klay Thompson, altro implacabile ‘cecchino’, la giovane coppia venne ribattezzata ‘Splash Brothers’ da Brian Witt, giornalista per il sito ufficiale della squadra. Il nomignolo si diffuse rapidamente, e con valide ragioni; da ottobre ad aprile, Curry e Thompson segnarono 483 triple combinate, più di qualsiasi altro duo nella storia NBA.
Gli spumeggianti Warriors chiusero la regular season con 47 vittorie e con il sesto piazzamento nella Western Conference, ipotecando così il ritorno ai playoff dopo sei stagioni di astinenza. Al primo turno superarono in sei partite gli eccellenti Denver Nuggets di George Karl (privi di Danilo Gallinari, messo k.o. da un devastante infortunio al ginocchio), poi dovettero arrendersi alla classe e all’esperienza dei San Antonio Spurs, che in quegli anni stavano vivendo una ‘seconda giovinezza’. I californiani diedero comunque filo da torcere alla banda di Gregg Popovich; in gara-1, i 44 punti e 11 assist di Curry fecero tremare l’AT&T Center, che tirò un sospiro di sollievo solo dopo due overtime. Nella partita successiva toccò a Thompson, che contribuì con 34 punti e 14 rimbalzi a pareggiare la serie. Tim Duncan e compagni chiusero la questione in gara-6, ma ormai l’intera lega si era voltata verso la Baia. I Guerrieri stavano arrivando.
Golden State Warriors, l’arrivo del leader: Andre Iguodala
Per tentare un ulteriore salto di qualità serviva qualcuno in grado di imporre la sua leadership sia in campo che nello spogliatoio, magari un rispettabile veterano con un passato da All-Star; insomma, serviva Andre Iguodala. Alla soglia dei trent’anni, la reputazione di ‘Iggy’ era cresciuta a dismisura. Se ai tempi di Allen Iverson veniva considerato semplicemente un grande atleta, con l’ultima stagione in maglia Sixers si era guadagnato la chiamata fra le stelle e l’inclusione nel Team USA che avrebbe vinto l’oro olimpico a Londra. Nell’unica annata trascorsa a Denver aveva mostrato grandi doti da leader, soprattutto ai playoff. Insieme al numero 9 (coinvolto in uno scambio a tre team, che spedì Jefferson, Rush e il centro Andris Biedrins), a Oakland arrivarono Marreese Speights e Jermaine O’Neal, mentre altri veterani, Steve Blake e Jordan Crawford, vennero aggiunti a stagione in corso.
Golden State aveva finalmente a disposizione un roster di grande livello, in cui al talento e all’atletismo si univano l’esperienza e la solidità. Dopo un avvio difficile, a cui contribuirono un calendario difficile e qualche infortunio di troppo, nel periodo natalizio la squadra di Mark Jackson cambiò nettamente marcia; 10 vittorie consecutive, 36 nelle ultime 54 partite, 51 vinte e 31 perse il record finale: il migliore dall’era-Run TMC. Curry fece il tanto atteso debutto all’All-Star Game, mentre Iguodala fu inserito nel primo quintetto All-Defensive; con lui in regia, Golden State era passata dal quattordicesimo al quarto miglior defensive rating NBA. L’ennesimo infortunio patito da Andrew Bogut, alle prese con una costola incrinata, lo costrinse a saltare la post-season. I continui problemi fisici dei lunghi (anche David Lee fece i conti con infortuni di vario genere) permisero a Draymond Green di guadagnare minuti e responsabilità. Mark Jackson lo schierò spesso da ‘centro atipico’ in quintetti piccoli che avrebbero fatto la gioia di Don Nelson.
Il primo turno dei playoff 2014 viene tuttora considerato uno dei più emozionanti di sempre; ben cinque serie su otto vennero decise in gara-7. Tra queste ci fu la sfida tra Golden State Warriors e Los Angeles Clippers. Per gli uomini di Doc Rivers non era certo un periodo facile: all’indomani della vittoria in gara-3 vennero pubblicate delle intercettazioni telefoniche in cui il proprietario, Donald Sterling, si lasciava andare a considerazioni di stampo razzista con la sua (ben più giovane) compagna. Il neo-commissioner Adam Silver intervenne prontamente, sospendendo a vita Sterling dalle attività NBA e costringendolo di fatto a vendere la franchigia. La sentenza arrivò a poche ore dall’inizio di gara-5. Ciononostante, i Clippers riuscirono a mantenere i nervi saldi; nella partita decisiva, giocata allo Staples Center, le solide prestazioni di Chris Paul (22 punti e 14 assist), Blake Griffin (24 punti) e DeAndre Jordan (15 punti e 18 rimbalzi) resero vani i 33 punti di Steph Curry; la corsa degli Warriors terminò lì.
Mentre la sentenza “Una squadra che gioca in quel modo non vincerà mai niente” si diffondeva come un mantra per il globo, le luci dei riflettori si concentrarono su coach Jackson. Il reverendo aveva vissuto una stagione complicata, segnata da parecchi screzi con la dirigenza (che non gli aveva esteso il contratto) e con il suo stesso staff. A marzo aveva ‘esiliato’ in D-League l’assistente Brian Scalabrine (campione NBA nel 2008 come riserva dei Boston Celtics) per ‘divergenze filosofiche’. Un altro assistente, Darren Erman, era stato licenziato per aver filmato di nascosto delle conversazioni in spogliatoio tra allenatori e giocatori. Dopo la sconfitta la squadra, capeggiata da Steph Curry, si strinse attorno all’amatissimo coach, evidenziando la bontà del lavoro da lui svolto e dichiarandogli pubblico sostegno. La dirigenza, però, decise che era giunto il momento di voltare pagina. Il 6 maggio, tre giorni dopo gara-7, Jackson fu sollevato dall’incarico.
Chi arrivlò al suo posto? Il protagonista del Game winner delle finals NBA 1997.
Golden State Warriors, l’arrivo di Steve Kerr
Quando fu svelato il nome del suo sostituto, in molti alzarono le sopracciglia. Steve Kerr, 48 anni, non aveva mai allenato. Cinque volte campione NBA tra Chicago e San Antonio, dopo il ritiro aveva seguito le orme di Mark Jackson, lavorando come analista per l’emittente TNT. Dopo la parentesi nella dirigenza dei Phoenix Suns (dal 2007 al 2010) era tornato a indossare le cuffie a bordocampo. In quell’estate 2014, gli Warriors non furono gli unici a proporgli una panchina. Phil Jackson, l’allenatore con cui Steve aveva vinto i suoi primi tre titoli, lo voleva fortemente ai New York Knicks, franchigia di cui il ‘Maestro Zen’ era appena diventato presidente. Quando Kerr scelse di trasferirsi nella Bay Area, i Knicks virarono su Derek Fisher, che aveva appeso le scarpe al chiodo solo qualche settimana prima. Mentre ‘Fish’ si barcamenava nel tentativo di far applicare la triangle offense ai derelitti Knicks, Steve Kerr prendeva il timone della nave-Warriors.
Il cambio di allenatore non fu l’unica mossa estiva di Bob Myers e soci. Dal mercato dei free-agent arrivarono Leandro Barbosa, già a Phoenix ai tempi di Kerr, e Shaun Livingston, affidabile riserva di Deron Williams ai Brooklyn Nets. A Klay Thompson, ancora in rampa di lancio, fu concesso un rinnovo quadriennale da 70 milioni di dollari. Durante l’estate, il numero 11 era stato vicinissimo alla cessione. I Minnesota Timberwoves, infatti, ne avevano preteso l’inclusione (insieme a David Lee e Harrison Barnes) tra le contropartite dell’affare che avrebbe portato in California Kevin Love. Sebbene quest’ultimo fosse partito in quintetto al recente All-Star Game, la richiesta sembrò eccessiva a Jerry West, che spinse per una fumata nera. Love raggiunse LeBron James a Cleveland, mentre Thompson rimase al fianco di Steph Curry, pronto a scrivere la storia. Prima di tuffarsi nella stagione 2014/15, gli ‘Splash Brothers’ si unirono al Team USA per il Mondiale di Spagna. Pur senza strabiliare individualmente, agli ordini di coach Mike Krzyzewski conobbero per la prima volta il dolce sapore della vittoria.
La dinastia dei Golden State Warriors nei numeri
Quell’estate, le maglie di Golden State non cambiarono (l’unica modifica, comune a tutte le franchigie, fu lo spostamento sul retro del logo NBA). Per la lega e per il gioco del basket, invece, niente sarebbe più stato come prima; stava per cominciare la Dinastia Warriors che avrebbe portato nella Baia a raggiungere quota 7 titoli NBA vinti, grazie a quelli del 2015, 2017, 2018, 2022, 12 titoli di conference (1947, 1948, 1956, 1964, 1967, 1975, 2015, 2016, 2017, 2018, 2019, 2022), 7 di Division (1974-1975, 1975-1976, 2014-2015, 2015-2016, 2016-2017, 2017-2018, 2018-2019) e alla vittoria del premio di MVP delle Finals NBA per:
- Andre Iguodala – 2015
- Kevin Durant – 2017, 2018
- Stephen Curry – 2022
Non male, considerando che la dinastia è ancora aperta. Dopo il titolo conquistato nel 2022 con le Finals vinte contro i Boston Celtics, i Warriors riusciranno a vincere ancora un ultimo titolo NBA con la dinastia attuale? Ai vari Curry, Green, Klay, si sono aggiunti giovani molto interessanti come Jordan Poole, Kuminga, Moody. Il futuro è ancora da scrivere per Steve Kerr e i suoi Golden State Warriors…