Home NBA, National Basketball AssociationNBA Passion App Chiamarsi MVP presenta Falling Stars: Le Stelle Cadenti della NBA

Chiamarsi MVP presenta Falling Stars: Le Stelle Cadenti della NBA

di William Cerrone
Stephon Marbury

Capitolo I: Stephon Marbury

Le stelle cadenti non sono propriamente stelle, per definizione. Sono meteore che bruciano quando entrano in contatto con la nostra atmosfera, provocando scie luminose sorprendenti, bagliori tanto potenti quanto brevi, quasi più luminosi delle vere stelle.

Associando il concetto alla NBA è impossibile non ricordare giocatori che hanno brillato per un periodo breve ma intenso, mancando la definitiva “consacrazione”. Proprio come le stelle cadenti, ne sono passati tanti di questi talenti nella massima lega americana, ed in questa rubrica cercheremo di ricordarne alcuni, i più affascinanti (cestisticamente parlando).

Le origini di Stephon Marbury

Sono le sei del mattino. New York è sveglia, l’energia della città pulsa nelle strade come il sangue in un cuore. Stephon è il sesto dei sette figli dei Marbury, la classica famiglia afroamericana orgogliosa e rispettabile, gente che non le manda a dire: i loro occhi spesso mettono in soggezione chi non riesce a sostenere uno sguardo tanto deciso. Ci si sta preparando per la prova giornaliera. Uno dei suoi fratelli è già pronto col cronometro: questa mattina ci sono 35 piani da salire di corsa, ossia i piani delle case popolari di Coney Island, dove Stephon vive. In cima c’è sua madre che lo aspetta per registrarne il tempo (che di sicuro, anche questa volta, non sarà soddisfacente).  “Ragazzo stamattina non mi sei piaciuto, vedremo domani in spiaggia”. Si, in spiaggia perché Stephon alternava le scale del Project alla sabbia di Coney Island. Quando non c’erano i gradoni da salire c’era la spiaggia su cui correre con i noti stivaletti di camoscio americani, non proprio il massimo della comodità.

Il prodigio di Brooklyn

“Starbury” cresce guardando i fratelli più grandi giocare a basket alla Lincoln High School, ma nessuno di loro sarà come lui. Li avverte, lo sa di essere più forte. Un ragazzino che a dodici anni si  presenta in bici al Garden, uno dei campetti più famosi di Brooklyn, dicendo “Sono arrivato, la prossima la gioco io” per poi dare spettacolo tutto il giorno è un predestinato. Non è sfrontatezza, è la strada di New York che ti fa crescere così, roba del tipo : “Credi di essere un fenomeno sul parquet? Vieni a misurarti sul cemento e ne parliamo”. Stephon comincia a dominare in tutti i playground della zona, compreso the “Cage” – la gabbia , da cui non esci se la partita non è conclusa, ma per restarci a lungo devi essere forte per davvero. Atleticamente e tecnicamente è troppo avanti rispetto a quelli della sua età : vince il campionato proprio con la Lincoln e fin da subito i riflettori sono puntati su di lui. Non a caso è uno dei protagonisti del libro di Darcy Frey “The Last Shot” e proprio la sua storia ispira il celebre film di Spike Lee “He Got Game”.L’altra faccia della medaglia però sono le prime critiche da parte della stampa e degli addetti ai lavori per il suo atteggiamento, considerato troppo accentratore e poco altruista. Questo “motivetto” accompagnerà Stephon per tutto il resto della sua carriera americana, fino alla NBA.

Gli anni da professionista

Stephon Marbury: draft 1996

Stephon Marbury: draft 1996

Ci arriva nel ’96, attraverso il famoso Draft che introdurrà nella lega futuri Hall of Famers come Kobe Bryant, Allen Iverson (già H.O.F.),  Ray Allen e Steve Nash. Marbury finisce a Minnesota, dopo lo scambio con Ray Allen. Da rookie mostra subito tutto il suo talento : i Twolves raggiungono i Playoffs in entrambi gli anni della sua permanenza (97/98) guidati dal suo talento e soprattutto da Kevin Garnett, the Big Ticket, la vera stella della squadra. Kevin è il giocatore del futuro, è un’ala piccola di 2 e 11 con una inusuale rapidità di piedi e buona tecnica di tiro, di conseguenza la maggior parte delle attenzioni sono rivolte a lui e questo già non piace tanto a Stephon, che da prodigio dei playground di New York ha un continuo bisogno di sentirsi in cima. Le cose peggiorano quando a KG viene rinnovato il contratto con cifre importanti: Marbury ne è geloso e chiede di essere ceduto. Sarà l’inizio di una serie di scelte dettate dal lato negativo del suo carattere, che poi si riveleranno sbagliate. I T-Wolves erano una squadra già competitiva e l’asse portante KG –Starbury, con un contorno decente, avrebbe potuto scalare tutta la Western Conference. Invece si cambia. Prima i Nets, dove giganteggia individualmente (fa registrare il career high di punti, 50) ma i risultati di squadra sono molto scarsi (celebre la scritta “All Alone 33” sulle sue scarpe) poi i Suns, dove raggiunge i Playoffs con Marion e un giovanissimo Stoudemire, ma la squadra non va oltre il primo turno. Alla fine del 2004 Marbury viene scambiato di nuovo e questa volta ha la possibilità di giocare nella squadra della sua città e del suo cuore : i Knicks.

Il periodo difficile

Stephon Marbury

Stephon Marbury

Proprio nella sua New York, da giocatore dei Knicks, Marbury vive gli anni peggiori della sua vita. Litiga spesso con gli allenatori (Larry Brown, Isaiah Thomas e Mike D’Antoni su tutti). Il New York Daily News definisce Marbury “L’atleta più insultato di New York”.  Eppure in campo gioca bene, dal 1998 al 2005 scollina sempre oltre i 20 punti di media, quasi mai scende sotto gli 8 assist a gara. Fonda anche un brand di calzature col suo nickname, che propone a prezzi bassissimi poiché il suo sogno era sempre stato quello di produrre delle scarpe da basket acquistabili da qualsiasi ragazzino del Project. Ma tutto questo non basta. Marbury è scontento, la squadra viene fischiata, gli vengono contestati spesso i 20 milioni di contratto e di riflesso anche il suo brand va in bancarotta. Successivamente Stephon ammetterà anche che in quegli anni arrivò persino a pensare di farla finita.

La sua ultima tappa nella NBA sono i Celtics, con cui gioca un anno, poco e male, gli viene proposto un rinnovo al minimo salariale ma rifiuta.

La gloria in Cina

Stephon Marbury come una star

Stephon Marbury come una star

La vita e la carriera del ragazzino prodigio di Coney Island svoltano quando l’agente di Stephon riceve la chiamata dalla Cina. Lui è riluttante, ma in alternativa ci sono pochi minuti di rotazione in modeste squadre Nba, una “pensione” anticipata che uno come lui non avrebbe mai accettato. Si vola quindi in Cina : la prima stagione è esaltante, vince l’MVP dell’All Star Game, e viaggia a medie stratosferiche in campionato. Il vero capolavoro però lo compie quando passa alla squadra di Pechino, che porta alla vittoria del titolo per la prima volta nella sua storia. La gente impazzisce, è adorato come un imperatore, gli costruiscono una statua fuori al palazzo, persino un museo a lui dedicato e a presentare la relativa cerimonia di apertura è il “miglior diplomatico non asiatico d’Asia” : Dennis Rodman (ma questa è un’altra storia). Riesce a risollevare il suo brand proprio grazie ai cinesi e addirittura si permette il lusso di criticare la Jordan per i suoi prezzi esagerati, raccogliendo molti consensi persino in America. Sua madre non è più in cima al Project per cronometrarlo, è con lui, applaudita e festeggiata,  come in occasione del suo 74esimo compleanno, quando commossa ha ripetuto ai tifosi di Pechino : “Vi amo, vi amo”.

Il vero Marbury è rinato in Cina. Soltanto in Oriente è riuscito a raggiungere la gloria. E’ un po’ come tornare indietro nel tempo, a quando da ragazzino esaltava la folla dell’high school ispirando scrittori e registi.

E proprio come a volte accade solo nei film, la meteora, lontano dal suo cielo, è diventata stella.

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1 commento

Jacopo 27 Novembre 2016 - 23:46

Articolo da 10 e lode! Solo a sentir parlare di lui mi brillano gli occhi, STO DIVENTANDO VECCHIO!

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