6. 2018-2019
Il 2019 di Antetokounmpo è leggendario. 27,7 punti, 12,5 rimbalzi e 5,9 assists a partita sono il suo bottino alla fine dell’anno.
La squadra, come detto, raggiunge le 60 vittorie, ed è solo la seconda volta nella storia (da quando è a Est) che riesce nell’obiettivo, non ripetendo soltanto lo stesso record della ex squadra del suo coach, ma anche quello degli stessi Bucks datati 1980-1981, 5 anni dopo l’addio di Kareem Abdul-Jabbar.
Giannis è totalmente infermabile durante la regular, che puntella con prestazioni totalitarie.
Ne ricordiamo due in particolare: il 17 marzo ne segna 52 (con 16 rimbalzi) ai 76ers ed il 4 aprile, proprio dopo una vittoria contro Philadelphia ispirata dai suoi 45+13, i Bucks mettono al sicuro la prima posizione a Est (mai successo prima nella loro storia). Inoltre, il 24 gennaio viene selezionato per l’All-Star Game del 18 febbraio, prendendo (insieme a LeBron) più voti di tutti quanti. Secondo le nuove regole, è lui il capitano. Un greco capitano della selezione dei migliori giocatori del mondo.
Il Greek Freak è ormai tra i primi della NBA, tra i giocatori più riconosciuti e, complice anche la sua spettacolarità, ormai già una simil-icona.
Da lodare, senza dubbio, il lavoro di Budenholzer. La sua è una pallacanestro fatta di concetti, ricercati, a volte quasi ossessivi.
Si era visto già con i suoi Hawks, una macchina perfetta che si è sciolta sul più bello. Un sistema corale a cui, probabilmente, mancava solo una grande star.
E qui invece ce l’ha eccome, e il rapporto non cresce solo dentro il campo, ma anche fuori.
Budenholzer è innocente vittima del fascino del suo giocatore migliore, ed anche Giannis è attratto dal suo modo di condurre, soprattutto emotivamente, la squadra. D’altronde, Budenholzer arrivava sì dagli Hawks, ma prima ancora è stato per ben 13 anni a Fort Alamo ad assorbire dalla guida di un maestro come Pop, che in fatto a gestione delle star qualcosa ne sa.
Qui, sia con i consigli dell’allenatore, sia per indole personale, Antetokounmpo si immerge in maniera ottima nel sistema di essere la stella-ma non farlo notare. E tutta la squadra ne giova.
La stagione finisce alla grande. I Bucks sono i grandi favoriti dell’Est come forse non lo erano da 50 anni. Ma i playoffs NBA, come ben sappiamo, sono però uno sport completamente diverso.
Anche se le prime due serie ci ingannano sui Bucks, che sembrano finalmente pronti.
Superati 4-0 i Pistons e 4-1 i Celtics, in finale di Conference, tornatici per la prima volta dal 2001, incontrano i Raptors di Kawhi Leonard che uscivano da una serie pazzesca contro Philadelphia.
Avanti 2-0, i Bucks si fanno rimontare in maniera secca e senza repliche dagli aggiustamenti di coach Nurse e dallo spirito da “squadra del destino” di Toronto: 4-2. Giannis esce con le ossa rotta.
I punti a partita non sono pochissimi ma nemmeno i soliti (22,7), ed è evidente il calo dopo gara 2, quando Toronto inizia a mettergli spesso un lungo in difesa e ad intasare l’area durante le penetrazioni. Ha solo 25 anni, ma le voci sono già molte: uno così, senza tante skills e senza tiro, non può guidare una squadra al titolo.
Alla fine, i Raptors come sappiamo vinceranno quel titolo, il 13 giugno. Ma 11 giorni dopo, il 24, succede un evento che consegna il ragazzo di Sepolia alla storia.