Come Jeff Hornacek ha ravvivato i Knicks
Correva l’anno 1987, autunno inoltrato, quasi inverno. Sting, lanciato da poco nella carriera solista dopo il successo ottenuto in tutto il mondo con i Police, celebrava New York e insieme lo scrittore e attore britannico Quentin Crisp, ormai da molto tempo stabilitosi nella Grande Mela, con un brano che è rimasto nell’immaginario collettivo: “Englishman in New York”. Vera poesia in musica, la canzone nella seconda strofa racconta uno dei lati meno reclamizzati della città: “Gentleness, sobriety are rare in this society”, intuitivamente traducibile con: “Delicatezza e sobrietà sono rare in questa società”.
Quando in primavera i Knicks si sono trovati nella condizione di dover assumere un nuovo capo allenatore, dopo il fallimento di Derek Fisher e l’interregno di Kurt Rambis, la scelta, non senza una certa sorpresa, è ricaduta su Jeff Hornacek, un uomo di per sé poco appariscente che potrebbe essere perfettamente racchiuso nel verso di Sting citato.
Al momento dell’ingaggio Hornacek veniva da due anni a luci (all’inizio) e ombre (alla fine) alla guida dei Phoenix Suns, la sua prima esperienza da head coach dopo gli anni di assistentato agli Utah Jazz sotto prima Jerry Sloan, che come vedremo è una figura chiave del tecnico dei Knicks, e in seguito di Phil Johnson, quando il leggendario coach nativo dell’Illinois nel febbraio 2011 lasciò la panchina della squadra di Salt Lake City per la furibonda lite con Deron Williams, peraltro spedito lui stesso altrove (ai Nets) da lì a pochi giorni.
Ecco, l’Illinois. C’è un filo conduttore tra Jerry Sloan e Jeff Hornacek, entrambi provenienti dallo stato a nord-est del lago Michigan. Il primo, infatti, sarà il punto di riferimento del secondo e lo aiuterà a costruirsi una solida reputazione in NBA come prima opzione dopo Stockton-to-Malone, insomma, non esattamente poco. Nel periodo in cui uscì “Englishman in New York”, però, Hornacek ancora non aveva incontrato Sloan, se non da avversario: all’epoca stava vivendo la sua stagione ai Phoenix Suns, che come quella precedente si sarebbe conclusa con un record negativo. Sarebbero seguite due annate positive, però, favorite dalla guida di coach Fitzsimmons e dalla presenza di Tom Chambers e Kevin Johnson.
Il suo status ne guadagna, ma i Suns hanno bisogno di sacrificare qualcuno per arrivare al tanto bramato sir Charles Barkley. Hornacek è una delle pedine che la dirigenza dell’Arizona, allora in mano ai Colangelo, decide di mettere sul piatto insieme a Tim Perry ed Andrew Lang per arrivare al Round Mount of Rebound dei Philadelphia 76ers.
Il biennio nella città dell’Amore Fraterno è intenso, la presenza di Herskey Hawkins in guardia dirotta il nostro nel ruolo di playmaker ma le skills personali suggeriscono palesemente altro tipo di impiego. Così, nel febbraio del 1994, una trade porta Hornacek accanto al già citato John Stockton, a Salt Lake City. Saranno anni ricchi di soddisfazioni: quei Jazz viaggiano che è una meraviglia, cavalcando i giochi a due tra le loro stelle ma mettendo via via in risalto anche il cosiddetto cast di supporto. Arriveranno due viaggi alle Finals NBA, nel 1997 e nel 1998, ma in entrambe le occasioni non sarà previsto lieto fine perché His Airness Michael Jordan deciderà che vuole il secondo Three-peat della sua carriera, e così sarà. In capo a un paio d’anni i problemi al ginocchio prenderanno il sopravvento e Hornacek sarà costretto a ritirarsi, con all’attivo anche due gare del tiro da tre punti vinte all’All Star Game.
Più dei risultati, comunque discreti per uno che di fatto non è mai stato una stella di prima grandezza, quello che caratterizza quegli anni è il sodalizio che nasce, come già accennato, con Jerry Sloan, i cui princìpi fulmireanno l’Hornacek giocatore sulla via di Damasco (anzi, in questo caso di Salt Lake City) e forgeranno l’Hornacek allenatore.
Difesa chiusa…ma non troppo
Da buon discepolo di Sloan, quindi attento alla forma piuttosto che alla sostanza, Hornacek ha impostato la difesa dei suoi Knicks con un imperativo categorico: proteggere il pitturato, costi quello che costi, in particolare la zona centrale. Chi si trova a difendere sul lato forte prende una posizione a metà tra l’attaccante e the rim, in modo che un’eventuale penetrazione possa essere facilmente coperta da tutti gli effettivi presenti sul parquet. Questa indicazione riguarda tanto gli esterni quanto soprattutto i lunghi, specie se gli avversari provano a portarli lontano dal ferro, fuori dalla zona di confort, e comunque di norma contro il pick&roll centrale. Se questo viene eseguito centralmente tra il piccolo e il lungo, il play (di solito Rose) resta sul suo uomo, passando la maggior parte delle volte sotto al blocco, mentre il lungo (Noah) fa un passo indietro per coprire l’area.
La difesa newyorchese quindi contiene, non anticipa, e che quindi marca in modo stretto. Questo comporta degli svantaggi, il primo dei quali è che sicuramente una marcatura asfissiante come quella dei Knicks patisce i cambi di lato improvvisi in quanto, non lasciando spazio tra sé e l’attaccante, il difensore non ha fisiologicamente il tempo necessario per adeguarsi. Gli stessi cambi di lato portano o a conclusioni da oltre l’arco che vanno spesso a bersaglio (dato sui tiri da tre) o a ulteriori penetrazioni che fanno saltare le marcature, creando confusione nella retroguardia e quindi agevolando l’attacco.
Tuttavia, come si evince dalle statistiche, e a dispetto della scuola funzionalista del proprio coach, i Knicks in difesa soffrono parecchio e, come ammesso dallo stesso Hornacek, magari non hanno neanche gli uomini giusti per essere una squadra dalla retroguardia solida.
Attacco
Malgrado siano ancora in corsa per un posto nei playoff orientali, i Knicks non appaiono nei primi posti delle statistiche né in difesa (e passi) né in attacco. Questo è un dato curioso, perché sebbene la superficiale conclusione che si potrebbe trarre è che sono un team tutto sommato modesto che gode di una certa competitività limitata ad Est, in realtà, leggendolo in un’altra ottica, potrebbe anche far supporre che, malgrado non raccolgano cifre eccezionali i newyorchesi abbiano un record positivo perché sanno portare a casa le gare quando serve.
Come i già citati Utah Jazz di Sloan, la base di partenza dell’offensiva newyorchese è il pick&roll laterale tra play e centro, quindi Rose e Noah. La fortuna, in questo caso, sta nel fatto che l’intesa tra i due era preesistente all’approdo di entrambi nella Grande Mela, corroborata da otto anni passati insieme in maglia Bulls.
Una delle opzioni, quella più simile alla versione tradizionale del flex offense, si sviluppa con il gioco tra i due della coppia ex-Chicago sul lato forte e nell’ordine Carmelo Anthony in angolo, Courtney Lee in ala e Kristaps Porzingis in punta ad aspettare lo scarico, oppure due di questi posizionati sul lato debole e uno che taglia lungo la linea di fondo e riceve palla in una posizione favorevole da cui poter effettuare il tiro.
Abbiamo detto una delle opzioni perché lo status di superstar di Melo ovviamente fa sì che l’uomo di Brooklyn non si apposti semplicemente sul lato per poi venire imbeccato e (spesso) segnare. Un’altra possibilità è infatti che, una volta che Rose abbia portato palla in attacco, serva il tre volte olimpionico, che a sua volta riceve il blocco di Noah in punta per andare a concludere in incursione o con il jumper, a seconda dei casi. Un altro caso si verifica nel momento in cui il play di Chicago abbia ha come opzione di blocco non solo il figlio dell’ex tennista, ma anche l’altro lungo, Kristaps Porzingis.
C’è poi da aprire il capitolo legato al lettone, che dal suo arrivo tramite Draft nel 2015 si rivelato la nota lieta dei blu-arancio. Anzitutto per la sua precisione al tiro: quando è chiamato a colpire lo fa in modo puntuale, chirurgico quasi, e questo succede sia quando viene riceve palla da fermo che quando è in movimento: non è raro che infatti, in situazioni di contropiede secondario, Rose finisca per passare la palla al numero 6 che è l’ultimo dei rimorchi ad arrivare in attacco, e che questi finisca per eseguire un tiro dalla punta. Quando, ovviamente, non è lui stesso con l’arancia in mano a dare il via all’azione.
La pericolosità di Porzingis è diffusa e sempre temibile, se già il tuo tiro non fosse abbastanza motivo di preoccupazione per le difese avversarie, va infatti aggiunta la capacità di mettere palla per terra e attaccare il ferro direttamente. Anche le sue doti di passatore non sono indifferenti, prova ne siano le fucilate che ogni tanto partono dalle sue mani e che giungono dirette verso chi sta contemporaneamente tagliando verso il canestro. Il lettone è, in sostanza, elemento imprescindibile dell’attacco.
A questo punto si potrebbe supporre che, vista l’unicità di Porzingis, i Knicks quando sono fisiologicamente obbligati a far rifiatare il loro giovane favoloso, si trovino senza contromisure e perdano il filo del discorso, e in parte è vero. Solo in parte, però, perché, , i newyorchesi sono riusciti a pescare un’alternativa più che credibile. Si tratta di Willy Hernàngomez: fatte le debite proporzioni lo spagnolo è infatti un lungo in grado indifferentemente di battagliare sotto i tabelloni in entrambe le metà campo e far male da fuori.
Nel complesso, tutta la second unit dei Knicks sa rendersi pericolosa. Brandon Jennings è la perfetta controfigura di D-Rose, mentre Justin Holiday si sta dimostrando un realizzatore continuo quando riceve lo scarico in angolo o dalla punta, spesso dopo una circolazione di palla che ha fatto saltare le rotazioni difensive. E mentre sta salendo di colpi anche Kuzminskas, che come Courtney Lee è uomo in grado di crearsi punti da solo, anche Kyle O’Quinn è in grado di offrire il suo contributo. Uno che ha fatto l’università Norfolk, Virginia, ma è un newyorchese purosangue, del Queens, e sa perfettamente cosa significa giocare al Garden (mai chiamarlo Madison). L’ala forte non è un fenomeno atletico, ha un uso limitato (eufemismo) della mano sinistra, ed è lento nel recupero difensivo, ma ha una lettura delle tempistiche con poche eguali e i suoi blocchi sono granitici, sostanziosi, delle vere fotografie direbbe Dan Peterson.
Con un attacco che a volte ha il difetto di ristagnare e una difesa ballerina, i Knicks restano comunque una discreta formazione, che vive di folate, di mareggiate, di fiammate. L’Illinoisman in New York ha avuto il pregio di saper implementare le qualità di un roster tutto sommato non eccezionale e di valorizzarne alcuni elementi, rendendo così funzionale ogni singolo giocatore in un sistema di per sé funzionalista.
Chiedete dove potranno arrivare? Sono circa una sessantina d’anni che nella Grande Mela si pongono questa domanda.