Le maglie delle squadre NBA cambiano spesso nel corso degli anni, alcune franchigie hanno rinnovato costantemente le proprie tenute da gioco, fino a stravolgerne completamente l’aspetto iniziale: una non potrà mai essere cambiata, i Boston Celtics.
Questione di marketing, certo, ma anche necessità di adeguarsi all’epoca storica (vedi i Toronto Raptors, ad esempio, di cui abbiamo parlato qualche settimana fa).
Ci sono divise, però, che non potranno mai essere cambiate, poiché entrate di diritto nel mito. Tra queste ultime troviamo senz’altro le immortali casacche biancoverdi dei Boston Celtics.
Con l’inarrestabile ascesa dei Golden State Warriors di Stephen Curry, i quali puntano a battere il record di vittorie in regular season dei Chicago Bulls 1995/96, si sono recentemente scomodati paragoni tra gli uomini di coach Steve Kerr e le più grandi squadre della storia della lega.
Ecco allora che emergono i nomi degli stessi Bulls (quelli di Jordan, Pippen e Rodman), dei Los Angeles Lakers dello ‘Showtime’ o di quelli di Kobe & Shaq, dei San Antonio Spurs dell’era Popovich-Duncan o dei Miami Heat dei ‘Big Three’.
Ci si dimentica forse troppo spesso però che, parlando di squadre vincenti e leggendarie, non è mai esistito (e molto probabilmente mai esisterà) niente di simile a ciò che fecero i Boston Celtics, che tra gli Anni ’50 e ’60 diedero vita alla più grande dinastia della storia dello sport.
Tra i membri fondatori, nel 1946, della Basketball Association of America (divenuta National Basketball Association tre anni più tardi), i Boston Celtics ottennero risultati piuttosto mediocri nei loro primi anni di vita, agli albori di una lega lontana anni luce da quella attuale.
Basti pensare che all’epoca erano ammessi soltanto giocatori bianchi, e che la regola dei 24 secondi fu introdotta nel 1954, dopo otto anni di punteggi quasi calcistici (la prima partita della storia del Gioco finì 1-0…).
Boston Celtics l’era di Auerbach
Nel 1950 venne ingaggiato come allenatore / manager l’ex coach di Washington Capitols e Chicago Stags, tale Arnold “Red” Auerbach. Accompagnato dalla fama di ‘testa calda’ aveva portato all’interruzione dei rapporti lavorativi con le squadre precedenti, Auerbach ebbe carta bianca, prendendo subito il controllo della nuova franchigia.
Al draft di quell’anno, il nome più caldo era quello dell’idolo di zona (dalla Holy Cross University di Worcester, Massachussets) Bob Cousy, ma Red lo snobbò, giustificando la scelta con un ‘sottile giro di parole’:
“Ditemi un po’: sono qui per vincere o per accontentare i bifolchi locali?”.
La sera stessa i Boston Celticsdraftarono Chuck Cooper, il primo giocatore afro-americano della storia NBA. Auerbach avrebbe mantenuto, nel corso degli anni, la sua fama di ‘pioniere’ contro le barriere razziali, tanto che nel 1964 schierò, per la prima volta nella storia, un quintetto di soli neri.
Alla fne dell’estate, per una serie incredibile di eventi (il rifiuto della squadra che lo aveva draftato, i Tri-Cities Blackhawks, e il fallimento di quella successiva, gli Stags), Cousy non aveva ancora una ‘casa’ e, quasi controvoglia, i Boston Celtics decisero quindi di ingaggiarlo. Senza saperlo, avevano dato inizio ad una leggenda.
Il nuovo playmaker, grazie agli spettacolari assist e alle movenze da playground divenne ben presto la superstar NBA ante litteram, tanto da essere soprannominato ‘Houdini of the Hardwood’, letteralmente ‘L’Houdini del parquet’.
La squadra di Cousy e della guardia Bill Sharman, arrivata nel 1951, era nettamente più forte rispetto a quella dei primi anni. Auerbach aveva introdotto uno stile di gioco innovativo basato sul contropiede e, grazie alla classe dei due leader, Boston raggiunse i playoff in tutte le stagioni immediatamente successive.
La corsa al titolo, però, venne costantemente interrotta in modo prematuro: tre eliminazioni di fila per mano dei New York Knicks, poi tre consecutive ad opera dei Syracuse Nationals.
Per fare il definitivo salto di qualità mancava qualcosa… O qualcuno.
Il draft NBA 1956 fu quello che cambiò per sempre la storia della franchigia.
Per via dell’antica regola della ‘territorial pick’, ovvero la precedenza di una squadra sulle altre nella scelta di giocatori della stessa zona geografica, fu selezionato Tom Heinsohn, che nella sua prima stagione fu convocato all’All Star Game e vinse il titolo di Rookie Of The Year, mentre alla tredicesima chiamata fu la volta di K.C. Jones, che si rivelerà uno dei pilastri della nascente corazzata (Jones, che non giocherà fino al 1958 per via del servizio militare, sarà anche l’allenatore dei Boston Celtics di Larry Bird negli Anni ’80).
Il colpo decisivo, però, fu l’incredibile “magheggio” con cui Auerbach portò a Boston Bill Russell, il centro della San Francisco University.
In seguito ad una serie di accordi che coinvolgevano giocatori, scelte al draft e pesino uno spettacolo itinerante gestito dal proprietario dei Boston Celtics, Red convinse prima i Rochester Royals a non scegliere Russell alla prima chiamata, poi i St. Louis Hawks a draftare e cedere il giocatore, che finì dunque per indossare la maglia numero 6 biancoverde.
Bill, ragazzo nero nato e cresciuto in una Louisiana flagellata dalla segregazione razziale, non riuscì mai a farsi piacere Boston, una delle città più razziste d’America, ma per la maglia dei Boston Celtics diede tutto, diventando il leader incontrastato della squadra, nonché una delle prime, grandi superstar di origini afro-americane.
Oltre alle innate doti di leader, Russell diede ai Boston Celtics una straordinaria presenza difensiva (fu uno dei primi giocatori a stoppare i tiri degli avversari e ad ‘aiutare’ i compagni battuti) che, unita alla sua grande abilità come passatore, potenziò ulteriormente l’innovativo stile di gioco del coach. I Boston Celtics divennero imbattibili.
Al primo anno con Russell in campo fu subito finale NBA. Avversari proprio gli Hawks, guidati dalla superstar Bob Pettit. Le due squadre diedero vita ad una delle più avvincenti finali di sempre, conclusasi al doppio overtime di gara-7 con la vittoria dei Boston Celtics, per la prima volta Campioni NBA.
St. Louis ebbe modo di rifarsi vincendo il titolo l’anno successivo, approfittando anche dell’infortunio (in gara-3) di Russell, fresco di nomina ad MVP stagionale.
Dopo la sconfitta del 1958 Boston non si fermò più, dominando ininterrottamente la NBA per gli otto anni successivi (record assoluto nella storia dello sport americano).
Il sigaro di Red Auerbach, che il coach accendeva ogni volta che la vittoria era assicurata, divenne il simbolo più riconoscibile di quella squadra leggendaria.
Nel 1959 la lega accolse colui che era destinato a diventare il giocatore più dominante di ogni epoca, il centro Wilt Chamberlain, ingaggiato dai Philadelphia Warriors. Nel suo anno da matricola, Chamberlain fu miglior marcatore e rimbalzista della lega, Rookie Of The Year, MVP dell’ All Star Game e MVP stagionale.
Il primo, attesissimo ‘scontro fra titani’ tra Chamberlain e Russell ebbe luogo il 7 novembre 1959 nel leggendario Boston Garden, ovviamente tutto esaurito. Wilt segnò più punti rispetto a Bill, ma i Boston Celtics vinsero la partita.
Ciò che accadde quel giorno rappresentò alla perfezione ciò che sarebbe accaduto da lì in avanti: Chamberlain non ebbe mai rivali a livello individuale (nel 1962 segnò 100 punti ai Knicks, uno dei suoi svariati record all-time), ma Russell e la sua squadra avrebbero sempre vinto.
Boston Celtics, il ritiro di Sharman e l’arrivo di Havlicek
Nel 1963 Sharman si ritirò, lo stesso avrebbe fatto Cousy due anni più tardi, ma al draft 1962 fu selezionato John Havlicek, che sarebbe poi diventato il leader dei Celtics negli anni post-dinasty.
Durante l’estate del 1964 Red Auerbach venne incaricato di creare un vero e proprio “Dream Team” per giocare una serie di incontri in Europa.
Il gruppo, di cui facevano parte anche Bill Russell, Bob Cousy e K.C. Jones, annientò senza pietà qualsiasi avversario, in quella che fu interpretata come un’esplicita dimostrazione di forza degli USA nel pieno della Guerra Fredda.
L’irripetibile striscia vincente dei Celtics fu interrotta nel 1967.
L’estate precedente, dopo l’ennesimo trionfo, il grande Auerbach aveva annunciato il ritiro, lasciando il posto da head coach nientemeno che a… Bill Russell, il quale disputò tre stagioni nella doppia veste di allenatore-giocatore.
Alle finali di Conference, Wilt Chamberlain ottenne il primo e unico successo della sua carriera contro Russell. I suoi Philadelphia 76ers, laureatisi poi campioni NBA, eliminarono Boston con un secco 4-1.
L’ultima partita della serie divenne famosa anche per le lacrime di commozione del nonno di Bill alla vista del nipote, nero, che faceva la doccia insieme ai bianchi.
Degli undici titoli conquistati da quei Celtics in tredici anni, ben sette furono vinti contro i Minneapolis Lakers, trasferitisi dal 1960 a Los Angeles, nel primo atto della più grande rivalità tra squadre di tutti i tempi.
Una rivalità decisamente a senso unico, almeno in quei gloriosi Anni ’60. Una supremazia così devastante, quella biancoverde, che la leggenda dei Lakers Jerry West (colui che oggi è raffigurato nel logo della NBA) pensò più volte di ritirarsi a seguito delle continue batoste subite.
West fu ripagato (in parte) della grande frustrazione accumulata negli anni soltanto nel 1972, quando finalmente diventò campione NBA battendo in finale i New York Knicks.
Anche gli ultimi due titoli della Dinasty bostoniana furono vinti ai danni dei gialloviola, nel 1968 e, in quello che sarà l’epilogo della carriera di Russell, nel 1969.
Le NBA Finals del ‘69 furono la summa delle maggiori rivalità cestistiche del decennio; ancora Celtics contro Lakers, ma anche, per l’ultima volta, Russell contro Chamberlain, con quest’ultimo chiamato a L.A. nel disperato ed inutile tentativo di battere almeno una volta gli eterni rivali.
Dopo aver annichilito nuovamente Wilt, Jerry West (unico giocatore nella storia eletto Finals MVP nonostante la sconfitta) e i Lakers, Bill Russell lasciò i Boston Celtics, facendo calare il sipario sulla più grande squadra NBA di tutti i tempi.
Quarant’anni più tardi, il premio di Finals MVP (mai vinto da Bill, in quanto inaugurato proprio nel 1969) verrà intitolato proprio a Russell, definito da David Stern “The greatest champion of them all”.
Con l’arrivo del nuovo decennio, la straordinaria epopea degli Invincibili era giunta alla fine.
Quelle maglie bianche e verdi, invece, erano già diventate leggenda.