Guido Bagatta è uno di quei personaggi che sembra essere uscito da un romanzo. Uno di quelli che mescolano sport e vita, in un’unica narrazione appassionante.
La sua voce è stata il battito che ha accompagnato una generazione di italiani alla scoperta degli sport americani: dalla NFL al basket NBA, quando ancora quelle discipline erano un mondo distante, quasi alieno. Ma Guido, con il suo talento e la sua curiosità (una qualità chiave, che raccomanda a tutti i giovani giornalisti e telecronisti), non si è limitato a raccontare. Ha reso vicini gli Stati Uniti, le loro storie, i loro eroi. Sportivi e non.
La sua carriera, come spesso accade, è stata un intreccio di coincidenze e incontri straordinari. C’è il giovane, con il sogno di vivere quel mondo che fino a quel momento aveva solo immaginato. C’è l’uomo che, con determinazione, riesce a raggiungerlo. C’è Rino Tommasi, il maestro che gli apre le porte. C’è Mike Buongiorno, che rende il suo sogno una realtà concreta. E poi c’è il Guido che conosciamo oggi, quello che le porte le attraversa con la passione di chi sa di essere nel posto giusto, al momento giusto.
Oggi, però, non parliamo solo di telecronache e di una carriera che ha scritto pagine importanti della cultura sportiva italiana. Oggi si parla di un viaggio: quello che lui stesso ha raccontato anche nel suo ultimo libro, “In volo con il prescelto – Io e LeBron James ad alta quota”. Un racconto che non è solo una cronaca di incontri con una leggenda vivente come il Re, ma un’ode alla capacità dello sport di creare legami che vanno oltre il campo.
Oggi ci siamo seduti con Guido per una chiacchierata che parte da lì, da quel ragazzo che sognava l’America, e arriva fino a oggi. E come ogni grande storia, c’è da scommettere che vi farà venire voglia di non perderne nemmeno un dettaglio.
Buona lettura.
Guido, sei considerato come una delle prime figure ad aver iniziato il pubblico italiano agli sport americani, in particolare NFL e NBA. Com’è iniziata questa avventura nelle telecronache e, soprattutto, come ti sei appassionato a questi sport?
“L’avventura è iniziata con un aneddoto che ho già raccontato un po’ di volte, e che riguarda Mike Bongiorno. Io studiavo in America e un giorno, per assurdo, su una copia del Corriere della Sera – arrivata una settimana dopo, perché erano altri tempi (ride, n.d.r.) – vedo che Mike Bongiorno è passato dalla Rai all’allora Fininvest, l’attuale Mediaset. Nelle idee di Mike c’era di prendere gli sport americani, semplicemente perché la Rai aveva il monopolio di Stato. Quindi a Berlusconi, come a chiunque altro, era impossibile accedere agli sport italiani. E non solo il calcio, ma anche la pallacanestro o la pallavolo. Allora, per offrire comunque dello sport agli italiani, l’idea fu quella di puntare sull’America, perché la NBA era già stata presa da una rete che si chiamava Prima Rete Indipendente di proprietà di Rizzoli, ovvero del Corriere della Sera di un tempo. Ho scritto una lettera a Mike Bongiorno quando ero ancora in America e lui, durante una mattina del periodo di Natale, ha chiamato a casa mia. Intanto io ero tornato in Italia. Mia madre aveva pensato ad uno scherzo. Mi ha detto: ‘C’è uno, è la terza volta che chiama, dice di essere Mike Bongiorno…’. Io ho risposto ed era veramente lui. Sono andato nella sede di Fininvest, che era a Milano 2. Ho fatto il mio primo provino praticamente al buio, pensando che fosse senza futuro. Dai miei non si usava tenere il televisore acceso, invece alle 20.00 di quella sera, non so perché, la TV era accesa. Così ho sentito la mia voce su Canale 5 dire: ‘Un saluto da Guido Bagatta, benvenuti alla prima di NFL tra Dallas e Pittsburgh…’. Questo fa anche capire quanto sono cambiati i tempi, certo non stiamo parlando di Cavour che se la stava giocando con Garibaldi, ma più o meno di 45 anni fa. Da lì è iniziato il tutto”.
Per curiosità, che cosa studiavi in America?
“Studiavo letteratura americana, della quale non mi ricordo assolutamente niente (ride, n.d.r.). Mi ricordo le nozioni basic, ma questo è perché a Santa Barbara lo scopo era fare tutto meno che studiare. Stiamo parlando comunque di un campus sul mare, molto rilassato. Adesso la situazione è migliorata. Avevo una parziale borsa di studio, tant’è che poi sono tornato e mi sono messo a fare questo mestiere in via definitiva. Pensate che quel college era definito una ‘Party School’, cioè un’università in cui si fa casino. Ai tempi, chi usciva da Santa Barbara non era così appetito dalle multinazionali. Non avevi lo stesso valore di uno che usciva dalla Bocconi, tanto per dire. Invece adesso è molto meglio, hanno delle facoltà importanti e hanno messo le cose a posto”.
Torniamo sulla tua carriera. Che cosa ti affascinava di più degli sport americani rispetto a quelli più seguiti in Italia, come ad esempio il calcio?
“Allora inconsciamente potrei dirti – ma non è vero – che nel raccontare gli sport americani ero da solo. All’inizio c’ero io e nessun altro, mentre oggi è diverso. Allora, i primi telecronisti di calcio fuori dalla Rai si stavano già formando. Lo stesso Sandro Piccinini, che è ancora uno dei numeri uno, era presente. La verità è che io sin da piccolo ho avuto questa passione per gli Stati Uniti, ci sono andato per la prima volta nel ’78, a 18 anni, ma è come se ci fossi andato già perché la immaginavo, ne guardavo le foto… Contate che la televisione c’era, ma non c’erano i satelliti o Internet. Quindi, quello che si vedeva degli Stati Uniti era molto relativo. Però sognavo sulle foto, sulle immagini che i giornali proponevano. Sognavo di sport, di New York – perché in quel periodo si stavano costruendo le Torri Gemelle – della spiaggia di Miami, delle gesta dei Dallas Cowboys, delle cheerleaders. Quindi quello è stato un po’ il motore, e poi la fortuna ha voluto che la mia passione, il mio sogno americano, grazie a Fininvest, Berlusconi e Mike Bongiorno, diventasse anche il mio lavoro”.
Negli anni delle tue prime telecronache, come hai gestito la sfida del raccontare agli italiani degli sport che potevano essere percepiti come lontani? E, soprattutto, il pubblico come reagiva?
“La battuta che si può fare è che io avrei potuto raccontare qualsiasi cosa, tanto nessuno ne sapeva niente! (ride, n.d.r.) In più, i giocatori di football hanno anche il casco. Hanno il nome dietro alla divisa, però se sbagliavo un nome se ne accorgevano in pochi. Questa è la battuta che si può fare, ma in realtà non è così. Sin dalle prime partite io ho cercato di fare quello che il mio maestro Aldo Giordani, che è stato il padre del basket moderno a livello mediatico, mi ha sempre raccomandato: divulgazione e spiegazione. Separati però. Cosa intendeva? Spiegare a tutti di che cosa stai parlando, non dare per scontato nulla, perché quelli che entrano e arrivano sul soggetto, se non capiscono se ne vanno. Non bisogna annoiare, ma fare ripetizioni a quelli che ci sono già e hanno già capito, dedicandosi anche a quelli che stanno entrando. E questo è il problema, la mia lotta con i giovani telecronisti di oggi. Dipende anche dal media dove stai parlando, perché se sei su Sky Sport NBA piuttosto che su Eurosport, puoi raffinare un po’ il discorso perché pensi che quelli che ti stanno ascoltando conoscono il prodotto. Se sei sulla televisione in chiaro, invece, devi dedicarti anche a quelli che non ne sanno. Molte volte sento termini che per noi sono facili come bere un caffè. Il pick and roll, ad esempio, per noi è semplice, ma tu lo devi saper spiegare praticamente anche a chi non ne capisce. Facciamo un esempio. Se un’amica di mia mamma, vent’anni, avesse sentito questo termine, avrebbe pensato: ‘Che cosa sta dicendo Guido? A questo punto cambio canale e vedo Amici della De Filippi, che almeno lì capisco tutto’. Sta tutta lì la questione”.
Come hai recentemente ricordato nell’ambito di un evento a Milano, sei stato testimone di un sacco di eventi topici dello sport americano. Qual è quello che ricordi con più emozione?
“In assoluto due. Il primo è il Super Bowl del 1981, San Francisco contro Cincinnati. Si giocava a Detroit, ed ero con Rino Tommasi. La mia prima vera telecronaca, con annesso e connesso il fatto che il Super Bowl era al coperto, perché fu una delle rare volte in cui venne fatto in una città fredda. Poi l’hanno rifatto in quella città, successivamente anche a New York, però la gran parte dei Super Bowl viene fatta a New Orleans, Miami, Los Angeles, Phoenix… perché vogliono dare anche alla gente la possibilità di aggregarsi. Quel posto invece sembrava perso nel nulla. Tommasi disse: ‘Qui potremmo veramente essere a Vladivostok, e non se ne accorgerebbe nessuno’. Fuori c’erano meno 26 gradi, se tu provavi a sputare, lo sputo si gelava prima di ricadere. Io non avevo mai provato una cosa così neanche in alta montagna, un freddo pazzesco nel tragitto che portava dal pullman allo stadio di Detroit che adesso non c’è più, è stato abbattuto e sostituito dal Ford Field. C’erano tipo 150 metri dal pullman alla porta dello stadio. Sono stati i 150 metri, quindi i 30 secondi, più freddi che io abbia vissuto in vita mia. L’altro momento riguarda invece la famosa Gara 6 di NBA tra Los Angeles a Philadelphia, con Magic Johnson che – a causa dell’infortunio di Kareem Abdul-Jabbar – gioca da centro e risolve la partita. Vinse il titolo per i Lakers al suo primo anno in NBA, vinse anche il titolo di rookie dell’anno, l’MVP delle finali, ma soprattutto fece una prestazione assurda contro gente tipo Darryl Dawkins, storico pivot di Philadelphia. Si portò a casa un titolo che sembrava, con l’infortunio di Jabbar, assolutamente irraggiungibile”.
Possiamo raccontare anche come sei riuscito ad entrare per vedere quella partita?
“Certo! I Lakers, per una benedizione divina che si chiama Superbasket – sempre Aldo Giordani – mi avevano dato un accredito permanente. Quindi io potevo entrare sempre, compresi i playoff. Quando ho chiesto l’accredito per le partite in trasferta, però, l’addetto dei Lakers mi ha detto: ‘Guard, io su questo posso dire al mio corrispettivo chi sei, però non ti posso garantire nulla’. Infatti, il corrispettivo di Philadelphia mi detto: ‘Molto bene, sei bravo, simpatico, italiano, però per quella partita non c’è posto’. E stiamo parlando di Gara 3 e successivamente anche la 4. In quell’occasione le prime due erano a Los Angeles e le seconde due a Philadelphia, poi di nuovo a Los Angeles. E al primo giro non sono andato a Philadelphia, perché avevo pochissimi soldi e neanche mi avrebbero fatto entrare. Però Gara 6 era decisiva, perché Los Angeles aveva la serie in mano. Allora mi sono detto che dovevo andare. Ho preso un volo di notte, sono arrivato alla sede dei Sixers e loro mi hanno riaffermato che non avevano niente per me. Poi qualcuno ha detto: ‘Dai diamogli una mano, c’è un posto da fotografo?’ Io gli ho detto che non ero un fotografo. La risposta è stata: ‘Ma hai una macchina fotografica?’, ‘No nemmeno quella’. ‘Allora, se te la procuri entri alla partita’. Io sono sceso per strada, c’era un supermercato che, tra le tante cose, vendeva le macchine fotografiche portatili, una cosa per turisti. Ho comprato una Kodak Instamatic, l’usa e getta che c’era una volta, di plastica e che adesso è tornata di moda, con la pellicola da sviluppare. Mi sono ripresentato mezz’ora dopo al desk di Philadelphia, e incredibilmente hanno detto che andava bene. Quindi io sono stato praticamente seduto sotto il canestro dei Sixers prima e dei Lakers poi, nel secondo tempo. Mi sono visto la partita facendo finta di scattare delle foto, che in realtà ho, ma per la tempistica che aveva l’otturatore erano foto molto artistiche, tipo Andy Warhol, molto lavorate e con la striscia tipo supereroi. Però quella partita l’ho comunque vista”.
Come abbiamo accennato prima, oggi gli sport americani sono molto più seguiti in Italia. Addirittura Sky Sport ha un canale interamente dedicato alla NBA, e questo è un grande passo avanti. Tu pensi che il tuo lavoro abbia contribuito a questo successo e a questa crescita?
“Sì, ma con un altro sarebbe stato lo stesso. Nel senso, essere il primo e poter diffondere la parola, in questo caso non di Dio, ma del pallone, aiuta. Secondo me la cosa assurda è che negli anni Ottanta, proprio per la novità, al 100% per il football americano, poi è scemato. Il basket invece aveva una tradizione, sin dal primo dopoguerra, già importante a livello italiano, ma per assurdo c’era molta più attenzione allora di adesso. Oggi il basket sta vivendo un periodo non bellissimo in Italia, con un indice d’ascolto molto basso. Non voglio entrare nel mondo di Sky, però anche lì i numeri della NBA e dell’Eurolega secondo me potrebbero essere più alti. In TV, anche su Discovery, ci sono delle partite che noi pensiamo possano fare dei numeri e ne fanno degli altri, perché si è un po’ perso lo spirito del basket, anche per colpa dei protagonisti. Stiamo parlando del basket italiano ovviamente, perché la NBA lavora da un’altra parte. Siccome un mondo è una correlazione, loro lavorano per il prodotto americano. In ogni caso, si è un po’ perso e ne stiamo pagando le conseguenze. Quindi, per assurdo, forse negli anni Ottanta e Novanta, la situazione era diversa. Io lo vedo ancora. Oggi siamo a Napoli. Poco fa ero in giro e un paio di persone mi hanno fermato, cercando di spiegare ai loro figli chi fossi. E i ragazzini ovviamente non capivano. ‘Questo signore ha portato qui gli sport americani…’, da un lato è una cosa piacevole, dall’altra vuol dire che siamo rimasti lì e quel tipo di diffusione non c’è più”.
So che tu e Federico Buffa siete molto amici. Ti va di parlarci del vostro rapporto e di come questa amicizia abbia aiutato a contribuire alla crescita di questo mondo?
“Il soggetto in questione è la persona più intelligente che io conosca al mondo, in assoluto. Ma anche la persona più strana, difficile, improbabile e infrequentabile. Io credo che sia l’unico che io conosco a non avere Whatsapp. Quindi non si può comunicare con lui, se via mail. Non riceve le immagini per SMS, perché il suo telefono è settato in quel modo. Vive in un posto dove nessuno è mai entrato, se non la sua fidanzata, in mezzo alla Brianza, in un bosco. È un personaggio unico, curioso, bravissimo. Eravamo molto più vicini negli anni Ottanta, abbiamo vissuto delle esperienze memorabili insieme a Chicago. Abbiamo fatto qualsiasi cosa sportivamente parlando. Abbiamo girato, visto le università, siamo andati in macchina dappertutto, con pochi soldi e tanta voglia. In Italia ci siamo frequentati negli anni Ottanta, poi nei Novanta ci siamo un po’ persi. Avevamo anche una società insieme, rappresentavamo le giocatrici americane che venivano in Italia, perché Federico è un avvocato. Io mi occupavo di reclutamento e dintorni, lui poi faceva tutta la parte contrattualistica. Ricordo che una volta siamo andati in Kentucky per una ragazza che si chiama Valerie Still, che poi è venuta a giocare a Milano, una superstar vera e propria. L’abbiamo vista giocare, e allora era vietatissimo – come è stato fin a pochi anni fa – per qualcuno di commerciale avere contatti con giocatori o giocatrici dilettanti. Poi, attraverso una serie di bigliettini da parte di suo fratello, che era un giocatore dei Kansas City Chiefs molto forte, Art Still, ci siamo visti in un Burger King fuori dallo stadio, in una giornata d’inverno. Così, lei è diventata una dei nostri primi acquisti. Poi abbiamo portato, anche se la gente se lo dimentica, Lynette Woodards a Schio, che è stata la prima donna a schiacciare in Italia. Era alta 1.86 cm, la Michael Jordan in versione femminile, solo nata 30 anni prima. Oggi dominerebbe ancora, e noi l’abbiamo portata a Schio da superstar. Poi, a metà anni Novanta ci siamo un po’ persi. Ogni tanto ci incontriamo ma, appunto, è una persona diversamente complicata, come tutti i geni”.
Hai recentemente scritto un libro su LeBron James, che hai anche presentato a Milano. Il libro si chiama “In volo con il prescelto – Io e LeBron James ad alta quota”. Come mai la scelta di un “pretesto”, come tu stesso l’hai definito, per parlare di esperienze lavorative personali, è ricaduta proprio sul Re?
“C’è un po’ di gente, compreso Andrea Meneghin, che mi dice che dovrei scrivere un libro sulla mia vita in aneddoti, non solo sportivi. Ho avuto la fortuna di incrociare grandi personaggi: Madonna, Eliza Minelli, Bruce Springsteen e via dicendo. Per adesso ho preferito concentrarmi sullo sport, però ci voleva un pretesto, appunto. Il pretesto me l’ha dato la Cairo (casa editrice del libro in questione, n.d.r.), chiedendomi di scrivere una biografia di LeBron James. A me questa idea non convinceva tanto, non per il soggetto e non per le mie capacità, perché che un po’ di autostima ce l’ho (ride, n.d.r.). Però secondo me una biografia di un grande come LeBron James, scritta da un italiano, sul mercato internazionale e tradotta anche in Italia, è già stata fatta. Credo ci siano già 2 o 3 libri su LeBron James, quindi non avrebbe avuto molto senso farne un altro. Ovviamente la scusa di Cairo era quella di avere la possibilità di farlo uscire per i 40 anni di LeBron, che compirà a fine dicembre. Il discorso si è poi evoluto perché mi sono detto: ‘Io la scrivo questa biografia, però la faccio a modo mio’. Quindi LeBron non è una scusa, è un tracciante sul quale si attaccano tutti gli aneddoti stile quelli che vi ho detto prima, però che riguardano solo il mondo della pallacanestro”.
C’è un timore che percepisco in tanti colleghi: dopo il ritiro ufficiale di LeBron, i cosiddetti “tifosi del giocatore” si potrebbero disinteressare alla NBA e si potrebbe verificare un ulteriore calo di ascolti, siccome già quest’anno la lega sta registrando un calo abbastanza notevole. Tu pensi che questo possa effettivamente succedere?
“No, se parliamo di quella gente che segue la NBA per i giocatori, c’è sempre quello dopo, e questo vale per tutto i mondo dello sport. L’unico che non ha avuto ‘quello dopo’ è stato Maradona, ma tutti gli altri in qualche modo l’hanno avuto. In NBA c’è Shai Gilgeous-Alexander che oggi gioca a OKC, ma magari fra 3 anni lo troviamo a Boston. C’è Ja Morant, oppure proprio a Boston ci sono 2 o 3 giocatori che possono generare fantasie. Credo poi che per Antetokounmpo questo sia l’ultimo anno a Milwaukee, poi potrebbe finire in un mercato importante tipo Miami. È difficile capire perché la lega stia perdendo ascolti. Il motivo vero e proprio secondo me è che tutti gli sport stanno perdendo ascolti, perché i giovani tra i 20 e i 30 anni hanno cambiato completamente il modo di interpretare la loro vita. I social li hanno abituati a vedere tutto subito, in poco tempo. Non ascoltano più la radio, perché per la loro canzone preferita devono aspettare chissà quanto perché la mettano. Allora vanno su Spotify, ed è così per tutto. Anche per il calcio italiano, ormai è tutto criptato. DAZN, ad esempio, non ha gli ascolti, però anche lì secondo me sono diminuiti di parecchio e il motivo principale è sempre quello lì. Poi nella NBA giocano un fattore importante le troppe partite, il tiro da tre punti, le superstar che non sono in mercati importanti ma in quelli di Oklahoma City, Memphis, Milwaukee. A San Francisco ovviamente c’è ancora Steph Curry che però, un po’ come LeBron, si avvia verso la fine. Non è più nel suo prime”.
L’introduzione della NBA Cup è stata molto divisiva. Nella WNBA, il format ha funzionato. Per mio parere personale, io credo che lì funzioni perché le giocatrici hanno la questione stipendi a cui far fronte. Considerando che il premio è in denaro, lì c’è una motivazione in più per giocare con un po’ più di costanza, voglia ed energia. Invece per quanto riguarda la NBA il discorso è diverso. Tu cosa ne pensi?
“Intanto bersaglio centrato sui soldi, perché una giocatrice WNBA fino all’anno scorso faceva fatica ad arrivare a 100.000 dollari l’anno, mentre ora triplicherà il suo stipendio anche grazie al nuovo CBA. Quindi, per loro avere un premio in denaro in più è importante. Per gli uomini, chi vince prende 500.000 dollari a testa. Per uno che guadagna 30 milioni, è un sessantesimo. Quindi è interessante per fare i regali di Natale, praticamente. Però secondo me il punto della NBA Cup è che, come per la Coppa Italia di calcio, se durante i turni preliminari saltano Milan, Juventus e Napoli e ti ritrovi – con tutti i meriti, perché lo spirito è un po’ quello della FA Cup in Inghilterra – Brighton contro Southampton, piuttosto che Millwall contro West Ham, qualche problema c’è. L’anno scorso era iniziata tra mille problemi, molta diffidenza, però sono andati in finale i Lakers e gli hanno cambiato la vita. Quest’anno secondo me ha avuto uno sviluppo, i giocatori l’hanno giocata intensamente, nonostante il discorso dei soldi. Ma si è arrivata ad una finale con due mercati molto piccoli, ed è andata malissimo a livello di audience televisivo oltre che, per assurdo, anche di spettatori. Un altro problema è stato giocare a Las Vegas. Io ci vado spesso anche a vedere dei concerti, ed è marcato neutro, ci sono solo turisti. Chiaro che se hai i Lakers, siccome sono 4 ore e mezza di macchina da Los Angeles, i tifosi arrivano. L’anno scorso era pieno di tifosi dei Lakers. Quest’anno c’erano forse 10 tifosi di Oklahoma City, 10 di Milwaukee e per il resto solo gente curiosa. Infatti c’era un silenzio tale, che dovevano mettere la musica nell’arena. La Coppa era un po’ una scommessa, e quest’anno l’hanno persa. Milwaukee ha vinto contro Orlando perché si è rotto Wagner, non ha neanche giocato quella partita lì. Dall’altra parte, Oklahoma City, che ha perso in finale ma che è la squadra più in palla del momento, ha fatto fuori Houston, che è un mercato molto più grosso, siccome Houston è la quarta città d’America. Però loro avevano bisogno di trovare un traguardo durante la stagione, dato che il problema vero della NBA è che la gran parte delle partite vengono giocate per firma. Ci sono già 8 squadre che, a questo punto della stagione, hanno già chiuso il tutto. Vi cito New Orleans per dirne una, ma non solo. Ci sono squadre che tanto non arriveranno ai playoff, quindi cercano di giocare, magari anche per gli infortuni che hanno subito, e di lavorare già per i prossimi anni”.
Mi hai dato un ottimo assist parlando di Las Vegas. Che cosa ne pensi dell’espansione della lega? Pensi che possa essere positiva oppure che vada a complicare ancora di più la situazione?
“È molto difficile già con 30 squadre, se diventassero 32 lo diventerebbe ancora di più. Las Vegas è però una città che le leghe non possono lasciare in un angolo. La giusta dimostrazione è l’NHL, squadra ha vinto il campionato già alla sua seconda stagione, quindi è andata benissimo. Il football americano, nonostante i Raiders siano la peggior squadra NFL dell’anno – per l’ennesimo anno – malgrado i loro soldi, riempiono sempre lo stadio con il prezzo più alto di tutta la NFL, perché le squadre ospiti – con un calendario diverso da quello della NBA, con poche partite – si portano decine di migliaia di tifosi a Las Vegas per un weekend, che organizzano già quando esce il calendario. Il baseball ci sta per arrivare. Nella WNBA, le Aces hanno vinto due titoli di seguito. Quindi la NBA ci deve passare. Il problema è il pubblico, non c’è lo zoccolo, non c’è la situazione per sviluppare i tifosi, tant’è che i Raiders giocano quasi sempre in trasferta, perché la gran parte tifosi allo stadio sono avversari. Nella NBA una cosa del genere non succederà se non con i Lakers e i Clippers perché sono vicini. Mi domando che pubblico potrà avere la squadra, ma ci devono passare. L’altra città candidata è Seattle, che da ormai 16 anni non ha più una squadra NBA ma ha una tradizione passata importante, ed è giusto ridargliela”.
Cosa pensi invece del nuovo formato dell’All Star Game?
“Che non salva il moribondo. Non vorrei che fosse l’estrema unzione di un format, un appuntamento, di cui non frega più niente a nessuno. È una roba di marketing, la NBA lo fa perché rende, nonostante gli indici d’ascolto siano calati, ma non cambia più niente perché la gente si è stufata. Per i giocatori è bellissimo perché festeggiano, io ci sono stato ad un po’ di All-Star Game ed è meraviglioso per i giornalisti e per chi assiste. È una festa, incroci un sacco di personaggi. Ceni con Magic Johnson, finisci in ascensore con Larry Bird, chiacchieri con Charles Barkley… È tutto bellissimo, però poi quello che fai vedere ai telespettatori è un qualcosa di cui, onestamente, non frega niente a nessuno. Quando l’Europa e l’Italia lo hanno cancellato io avevo qualche dubbio, però poi hanno fatto bene. Però io, visto che la Nazionale è vituperata, mal esposta e manca di stimoli, in un calendario folle come quello del basket nostrano – con l’EuroLega che monopolizza il tutto – una bella partita tra gli stranieri in Italia e la Nazionale la farei, con premi in denaro. E forse così avremmo una partita decente. È l’unico modo per salvare l’All-Star Game in America, però per questo dovrebbero mettersi d’accordo FIBA, Eurolega e NBA. È come dire Putin, Trump e la Meloni. Oppure, tagliando fuori FIBA e Eurolega, bisognerebbe far scontrare gli americani contro il meglio del mondo, oppure un formato NBA vs. Eurolega, che sarebbe una bella partita. Quello potrebbe salvare il tutto. Magari un anno a Londra, un anno in America, purtroppo non in Italia, ma magari Madrid piuttosto che Berlino. Però bisogna far coincidere calendari e necessità. E visto il contratto televisivo che ha fatto la NBA, che si è praticamente blindata per i prossimi 9 anni, la vedo dura. Però la soluzione non è quella di oggi, sicuramente”.
Passiamo al basket italiano. Secondo te, perché alcune squadre della LBA (mi vengono in mente, ad esempio, Varese oppure Napoli, che 18 anni fa vantava a roster Lynn Greer, mentre adesso rischia la retrocessione) danno un po’ la percezione di fare poco scouting a livello europeo e di accontentarsi degli americani di “seconda fascia”?
“La prima risposta è una questione di budget che si risolve, come tu hai suggerito bene, facendo scouting vero e proprio. Non voglio entrare nelle tematiche di ogni società, perché ognuno decide per sé. Tra l’altro in questi giorni, a Orlando si è tenuta una reunion della G-League, per mettere in piedi una specie di enorme All-Star Game con tutti i prospetti futuri e non solo. Saranno presenti anche 4 squadre italiane su 16. Questo dà già una risposta alla domanda che mi hai fatto, ma non voglio fare i nomi delle 4 squadre perché non è giusto, andatelo a scoprire da soli (ride, n.d.r.). Tra l’altro, 3 delle 4 non sono squadre di primissima fascia, quindi non devono essere necessariamente team che hanno un grosso budget da investire in giocatori pesanti. Il basket italiano lo ha dimostrato quest’anno, perché è molto volubile. La stessa Milano ha vinto lo Scudetto e cambiato credo 7 giocatori su 12. Ci sono poi squadre come Napoli che ne hanno cambiati 10 su 12, ma fate anche 11 perché uno dei due rimasti è un ragazzino che ha giocato poco l’anno scorso. Infine c’è De Nicolao, che praticamente è l’unico rimasto”.
Cosa pensi che non funzioni nel movimento del Napoli Basket, che l’anno scorso ha conquistato la sua prima Coppa Italia dopo 18 anni, e adesso è il fanalino di coda della classifica del campionato?
“Loro hanno fatto un errore, che ho sottolineato anche con lo stesso presidente, di presunzione. Perché va bene cambiare, ma non così. Va bene stravolgere una squadra, ma non prendendo dei giocatori completamente diversi rispetto a quelli che c’erano prima – peraltro l’anno scorso era andata bene – dicendo che c’erano stati dei problemi interni. Poi magari è vero che c’erano, perché appena Napoli ha cambiato allenatore, due dei protagonisti della Coppa Italia dell’anno scorso hanno alzato la mano dicendo: ‘Noi torniamo’. Quindi ci sono sicuramente dei problemi specifici, però il primo riguarda il budget. Ti può andare bene se hai da spendere 120.000 dollari per un giocatore, come è capitato a Varese 2 anni fa, quando ha azzeccato quasi tutti i giocatori e, se non ci fosse stata quella assurda squalifica – per una cosa che peraltro non c’era – Varese sarebbe andata in semifinale quell’anno. Ti può andare male, come l’anno scorso e quest’anno, perché è un continuo cambiare, una lavatrice continua. Prendi, metti, aggiungi, tiri via, anche lottando con un libretto degli assegni che diventa sempre più piccolo”.
Concludiamo con un’ultima domanda: che cosa consigli ai giovani appassionati di sport americani, come la NBA in particolare, ma anche NFL e compagnia cantando, che vogliono seguire le tue orme?
“Intanto di crederci, sempre. Sembra uno slogan quasi politico, ma bisogna crederci sempre, anche nei momenti di down. E questo perché il mondo è difficile, anche più difficile adesso, per vari motivi. Ci sono molti più concorrenti, ma c’è meno voglia da parte di chi ti dà lavoro, soprattutto di pagarti decentemente. E questo perché con le varie intelligenze artificiali, si prende molto meno. Se però uno crede di aver talento e di amare veramente qualcosa, deve crederci utilizzando sempre e comunque – e questo non solo per il basket NBA, ma per tutto quello che uno fa da ragazzino – il click della curiosità. La curiosità è tutto. Se una persona è curiosa, è già a metà dell’opera. Quell’altra metà è la famosa montagna da scalare in ciabatte. Però diciamo che gli scarponi li hai usati per camminare in montagna, almeno fino a metà percorso, con la curiosità”.
Si ringrazia il Hotel Mercure Centro Angioino (Napoli) per la location messa a disposizione, e l’intervistato per la cordialità dimostrata.