NBA, il quintetto del decennio

di Stefano Belli
Lillard kevin durant

La stagione 2018/19 è finita da poco più di un mese, ma la NBA ha un volto completamente diverso. Il draft, la free-agency e alcuni scambi inaspettati hanno ridisegnato il panorama della lega, lasciandola senza una squadra dominante, ma con tante credibili pretendenti al titolo. Per via di un curioso allineamento dei pianeti (stelle in scadenza di contratto, infortuni più o meno gravi, progetti falliti miseramente), l’inizio della nuova era coincide con l’arrivo del nuovo decennio. I radicali stravolgimenti e la curiosità per l’immediato futuro fanno sì che tutto quello che è successo dal 2010 al 2019 appaia ormai come un ricordo sbiadito, un volume chiuso e riposto in archivio.

La contemporanea fine degli Anni ’10 e del vecchio ciclo NBA sono l’occasione perfetta per una ‘foto di gruppo’, un ritratto dei protagonisti che hanno segnato quest’epoca. Per stilare il ‘quintetto del decennio’ (più sesto uomo e coach) sono state prese in considerazione le vittorie di squadra e i riconoscimenti individuali nel periodo 2010-2019, ma anche l’impatto avuto sull’evoluzione del gioco, ormai lontano anni luce da come era stato concepito da James Naismith a fine Ottocento. Proprio in virtù dei continui cambiamenti, abbiamo deciso di eliminare i classici (e ormai desueti) ruoli ‘da uno a cinque’, utilizzati ad esempio da Sports Illustrated nel 2009 per il suo NBA All-Decade Team (Steve NashKobe BryantLeBron JamesTim DuncanShaquille O’Neal, coach Phil Jackson). Il nostro quintetto sarà suddiviso in guards (G) e forwards (F), in attesa che gli Anni ’20 spazzino via una volta per tutte questa obsoleta classificazione. Con la doverosa premessa che ogni scelta, in quanto soggettiva, è tranquillamente opinabile, partiamo subito con il nostro quintetto NBA degli Anni ’10!

 

G – Stephen Curry (Golden State Warriors)

Stephen Curry con i suoi tre titoli NBA

Stephen Curry con i suoi tre titoli NBA

Palmarès 2010-2019: 3 titoli NBA (2015, 2017, 2018), 5 finali NBA (2015-19), 2 MVP (2015, 2016), 6 All-Star Game (2014-19), 3 All-NBA First Team (2015, 2016, 2019), 2 All-NBA Second Team (2014, 2017), 1 All-NBA Third Team (2018), All-Rookie First Team (2010), 1 volta miglior realizzatore NBA, leader NBA per recuperi e membro del 50-40-90 club (2016), NBA Three Point Contest Champion (2015), 1 oro mondiale (Spagna 2014).

Stephen Curry non è solo uno dei giocatori più vincenti dell’era moderna, è il manifesto vivente dell’evoluzione della pallacanestro americana. Argomentare l’influenza che ha avuto sul gioco semplicemente elencando le percentuali e i record relativi al tiro da tre punti sarebbe un’offesa al gioco stesso. Curry è stato il primo esempio di giocatore ‘estremo’, sulle cui peculiarità si è costruita una squadra che ha avuto poco a che fare con il basket dei ‘comuni mortali’.

Il fatto che Steph sia il più letale ‘cecchino’ che la NBA abbia mai visto è certamente alla base di tutto, ma nessun tiratore aveva mai guidato una franchigia, da leader assoluto, a cinque finali e tre titoli NBA. Il suo impatto è visibile soprattutto nei continui adeguamenti, nei progressivi perfezionamenti tattici con cui ha risposto, negli anni, alle strategie delle difese avversarie. Oggi, Steph Curry non è il giocatore NBA che tira di più da tre punti. Lo è stato, ininterrottamente, dal 2012 al 2017, poi ha passato il testimone a James Harden, faro di quegli Houston Rockets che hanno raggiunto e superato i Golden State Warriors in quanto a ‘basket estremo’. Aiutato da un eccellente allenatore come Steve Kerr e da compagni versatili e intelligenti come Draymond Green, Klay Thompson, Kevin Durant e Andre Iguodala, ha punito le eccessive (ma giustificate) attenzioni delle difese implementando il suo gioco con penetrazioni, extra-passes pick n’roll spesso iniziati come bloccante.

Tutti questi termini tecnici possono essere riassunti in un concetto: Steph Curry ha creato la dinastia Warriors. A inizio decennio, quella californiana era una delle franchigie più disfunzionali della storia NBA, oggi è un’organizzazione in cui All-Star e MVP non esitano a sacrificare le proprie statistiche, o addirittura la propria salute (come visto nelle Finals 2019), per il bene collettivo. Poi le soddisfazioni individuali sono arrivate comunque, come testimoniano i due trofei di MVP consecutivi (con quello del 2016 assegnato per la prima volta all’unanimità) e le impressionanti cifre. Il fatto che un ragazzino smilzo dalle caviglie fragili sia riuscito a dare vita alla macchina da pallacanestro definitiva spiega al meglio perchè, da anziani nostalgici, potremo raccontare con orgoglio di aver visto giocare Steph Curry.

 

G – James Harden (Oklahoma City Thunder 2010-12, Houston Rockets 2012-19)

James Harden con il trofeo di MVP vinto nel 2018

James Harden con il trofeo di MVP vinto nel 2018

Palmarès 2010-2019: 1 finale NBA (2012), 1 MVP (2018), Sixth Man Of The Year (2012), 7 All-Star Game (2013-19), 5 All-NBA First Team (2014, 2015, 2017, 2018, 2019), 1 All-NBA Third Team (2013), All-Rookie Second Team (2010), 2 volte miglior realizzatore NBA (2018, 2019), 1 volta miglior assistman NBA (2017), 1 oro olimpico (Londra 2012), 1 oro mondiale (Spagna 2014).

La parabola NBA di James Harden è stata piuttosto curiosa, fino a questo momento. Quella vista a Oklahoma City sembrava una sorta direincarnazione’ di Manu Ginobili: perfetto team player e sesto uomo di lusso, il giocatore a cui affidare il pallone nei momenti decisivi. Un privilegio che i Thunder non hanno potuto e voluto permettersi, rinunciando al sacrificio economico che avrebbe trattenuto il Barba al fianco di Kevin Durant e Russell Westbrook.
Una volta ‘allargato il vaso’, con una squadra tutta per lui, Harden si è trasformato in una furia offensiva con pochi eguali, non solo negli Anni ’10. E’ passato da sesto uomo ad All-Star, da perenne candidato MVP a vincitore del trofeo, da re dei marcatori e degli assistman allo status (condiviso con pochissimi altri) di giocatore-simbolo della lega. Quando in panchina c’erano Kevin McHale e J.B. Bickerstaff, gli Houston Rockets erano la tipica squadra della ‘vecchia’ NBA, con una stella (o due, nel breve periodo texano di Dwight Howard) al servizio di un progetto tattico ben definito. Un modello replicabile (con le dovute proporzioni) in qualsiasi lega professionistica. Con l’arrivo di Mike D’Antoni, il concetto è stato completamente ribaltato: il gioco dei Rockets è stato cucito su misura per le doti uniche del loro leader, il roster costruito con giocatori che potessero rappresentarne l’ideale ‘contorno’. Che piaccia oppure no, il nuovo sistema ha portato Harden nel ‘Mount Rushmore’ della NBA contemporanea e Houston a vette inesplorate, in tempi recenti.

Nel 2018, i Rockets di Harden hanno chiuso la regular season con il miglior record nella storia della franchigia (65-17; la squadra di Hakeem Olajuwon, nel 1994, si fermò a 58 vittorie) e sono usciti in gara-7 della finale di Conference, sbagliando 27 triple consecutive contro la migliore squadra di sempre. Sembrerà folle (anzi, lo è), ma un risultato del genere viene tuttora considerato un fallimento. Ciò che ancora separa il numero 13 e la sua squadra dall’immortalità sportiva è la mancanza del trofeo più importante, quello per cui tutti (almeno a parole) giocano: il titolo NBA. Ecco perchè è un grosso azzardo scommettere che, per James Harden e gli Houston Rockets, il treno sia già passato. Alla soglia dei trent’anni (li compirà il 26 agosto) si è già consacrato come un ‘all-time great’ e fa parte di un’organizzazione rivoluzionaria e affamata. Ciò significa che nella nuova era, come in quella precedente, il motto sarà sempre lo stesso: “Fear The Beard”.

 

F – Kawhi Leonard (San Antonio Spurs 2011-18, Toronto Raptors 2018-19)

Kawhi Leonard festeggia il secondo titolo NBA, vinto con Toronto

Kawhi Leonard festeggia il secondo titolo NBA, vinto con Toronto

Palmarès 2010-2019: 2 titoli NBA (2014, 2019), 3 finali NBA (2013, 2014, 2019), 2 Finals MVP (2014, 2019), 2 Defensive Player Of The Year (2015, 2016), 3 All-Star Game (2016, 2017, 2019), 2 All-NBA First Team (2016, 2017), 1 All-NBA Second Team (2019), 3 All-Defensive First Team (2015-17), 2 All-Defensive Second Team (2014. 2019), All-Rookie First Team (2012), 1 volta leader NBA per recuperi (2015).

In comune con Curry ha il fatto di essere arrivato in NBA da semi-sconosciuto, come Harden ha avuto una progressiva evoluzione tecnico-tattica, passando da puro specialista a ‘giocatore universale’. Per il resto, sul sentiero intrapreso da Kawhi Leonard nella lega non c’erano altre tracce, solo neve fresca. Nella maggior parte dei casi, vincere un titolo NBA da MVP della serie finale è il coronamento di una carriera; per lui, invece, ne è stato semplicemente l’inizio.

I San Antonio Spurs avevano intravisto in lui un’ala versatile e atletica con spiccate abilità difensive: l’identikit perfetto di un giovane da ‘coltivare’ nella speranza, un giorno, di poterlo inserire in quintetto. Un onesto mestierante in grado di portare ulteriore equilibrio nella squadra di Tim Duncan, Manu Ginobili e Tony Parker. Per questo, Gregg Popovich aveva deciso di ‘sacrificare’ il fido George Hill e ottenere Leonard dagli Indiana Pacers, che lo avevano chiamato per quindicesimo al draft 2011. In Texas, Kawhi ha avuto un impatto immediato, guadagnandosi il posto da titolare già nella stagione da rookie e conquistando un ruolo di primissimo piano l’anno successivo. Leonard è stato uno dei principali protagonisti delle ‘maledette’ Finals 2013. In negativo, per il tiro libero sbagliato nel finale di gara-6; uno degli errori cruciali che hanno propiziato la rimonta dei Miami Heat, coronata dalla leggendaria tripla di Ray Allen. Ma, soprattutto, in positivo: il suo sorprendente contributo in attacco, unito alla straordinaria opera di contenimento su LeBron James in difesa, gli sarebbero probabilmente valsi il Bill Russell Award in caso di vittoria nero-argento. Ogni dubbio e buona parte dei rimorsi sono stati spazzati via un anno più tardi, con un magnifico Leonard a imporsi come ciliegina sulla squisita torta del ‘Beautiful Game’ degli Spurs. A nemmeno 23 anni, con due trofei nelle enormi mani, Kawhi era sul tetto del mondo.

Quel trionfo è stato semplicemente il suo biglietto d’ingresso nell’elite delle superstar NBA. Da quel momento in avanti sono arrivati i due premi come Difensore dell’Anno, le convocazioni all’All-Star Game e l’inserimento nei vari quintetti All-NBA. Con il ritiro di Duncan, il numero 2 sembrava destinato (anche per le affinità caratteriali con il caraibico) a raccoglierne il testimone come leader degli Spurs. Invece, il fallo di Zaza Pachulia alle finali di Conference 2017 ha scatenato un devastante effetto domino; le incomprensioni tra lo staff di San Antonio e l’entourage del giocatore in merito al recupero dall’infortunio hanno causato una frattura insanabile tra le parti, sfociata nella richiesta di cessione.

L’esilio forzato in Canada appariva come una fase di passaggio nella carriera di Leonard, invece si è rivelata quella che lo ha consegnato alla leggenda. Nel giro di pochi mesi, Kawhi ha preso i Toronto Raptors e li ha trasformati in una squadra da titolo, spazzando via le incertezze e i fallimenti che li avevano tormentati per l’intero decennio. Alzando mostruosamente il livello ai playoff, li ha trascinati prima a una storica apparizione alle NBA Finals, poi al clamoroso trionfo, raggiunto dominando in casa dei pur malconci Warriors. Il suo immediato addio ha contribuito a rendere la parentesi canadese una sorta di ‘sogno d’una notte di mezza estate’, dal quale i tifosi dei Raptors si sveglieranno con l’indelebile ricordo di colui che, per pochi, irripetibili mesi, è stato ‘The King Of The North.

 

F – LeBron James (Miami Heat 2010-14, Cleveland Cavaliers 2014-18, Los Angeles Lakers 2018-19)

LeBron James ha guidato Cleveland allo storico titolo NBA 2016

LeBron James ha guidato Cleveland allo storico titolo NBA 2016

Palmarès 2010-2019: 3 titoli NBA (2012, 2013, 2016), 8 finali NBA (2011-18), 3 Finals MVP (2012, 2013, 2016), 3 MVP (2010, 2012, 2013), 10 All-Star Game (2010-19), 1 All-Star Game MVP (2018), 9 All-NBA First Team (2010-18), 1 All-NBA Third Team (2019), 4 All-Defensive First Team (2010-13), 1 All-Defensive Second Team (2014), 1 oro olimpico (Londra 2012).

Nel 2010 la NBA era già la lega di LeBron James, nel 2019 lo è ancora. A inizio decennio, il fenomeno di Akron (Ohio) era ‘The Chosen One’, il ragazzo prodigio che, nonostante la smodata pressione, aveva saputo mantenere le enormi aspettative. Nel 2003 era arrivato come il Messia a Cleveland, trasformando i mediocri Cavaliers in una potenza della Eastern Conference e portandoli addirittura in finale nel 2007 (straperdendo contro i favoritissimi Spurs). A livello individuale si era già consacrato come uno dei volti della lega (MVP nel 2009, si sarebbe ripetuto l’anno successivo), ma la mancanza del Larry O’Brien Trophy pesava come un macigno su una carriera così scintillante.

Le soddisfazioni di squadra sono arrivate negli Anni ’10, quelli in cui LeBron è diventato ‘King James’. I suoi Miami Heat, che aveva scelto in diretta TV tirandosi addosso un mare di polemiche, hanno dominato la prima metà del decennio, raggiungendo quattro finali e vincendo due titoli consecutivi. Nel 2014, il suo ritorno a Cleveland ha dato un lieto fine alla favola, con altre quattro finali e con lo storico titolo 2016, conquistato in rimonta contro gli Warriors delle 73 vittorie. Finché il Re ha governato sulla Eastern Conference, tutte le aspiranti rivali hanno dovuto abbandonare ogni ambizione di gloria; dagli ultimi Boston Celtics di Doc Rivers a quelli giovani e rampanti di Brad Stevens, dagli Indiana Pacers di Paul George ai Toronto Raptors di DeMar DeRozan e Kyle Lowry.

Oltre ad aver finalmente riempito la bacheca con i trofei più importanti, nel decennio appena trascorso LeBron ha avuto una maturazione tecnica spaventosa. Soprattutto nella seconda parentesi in maglia Cavs, si è imposto come il giocatore più completo ad aver mai messo piede su un parquet, ricoprendo ad altissimi livelli i cinque ruoli tradizionali, sviluppando una visione di gioco senza pari e mettendosi sulla buona strada per chiudere la carriera come miglior realizzatore di sempre (attualmente è quarto, gli mancano circa seimila punti per superare Kareem Abdul-Jabbar) ed entrare nella cerchia ristretta dei più grandi passatori della storia NBA (oggi è al decimo posto; Magic Johnson, quinto all-time, è a 1500 assist di distanza). L’unica lacuna rimasta da colmare è l’innata predisposizione di James ad andare ben oltre le sue mansioni da giocatore. I suoi ‘decisi incoraggiamenti’ nei confronti della dirigenza sui vari acquisti hanno portato un titolo a Cleveland ma, dopo il suo addio, hanno lasciato solo macerie. E il primo anno in maglia Los Angeles Lakers, fin qui il peggior fallimento del numero 23, ha mostrato che la tendenza non è certo cambiata. Guai, però, a scommettere contro King James. Gli Anni ’20 saranno quelli del suo ritiro ma, prima che il fatidico momento arrivi, c’è ancora qualche cartuccia da sparare. E LeBron non è mai stato così affamato…

 

F – Kevin Durant (Oklahoma City Thunder 2010-16, Golden State Warriors 2016-19)

Kevin Durant, due volte campione NBA e Finals MVP

Kevin Durant, due volte campione NBA e Finals MVP

Palmarès 2010-2019: 2 titoli NBA (2017, 2018), 4 finali NBA (2012, 2017, 2018, 2019), 2 Finals MVP (2017, 2018), 1 MVP (2014), 10 All-Star Game (2010-19), 2 All-Star Game MVP (2012, 2019), 6 All-NBA First Team (2010-14, 2018), 3 All-NBA Second Team (2016, 2017, 2019), 4 volte miglior realizzatore NBA (2010-12, 2014), membro del 50-40-90 club (2013), 2 ori olimpici (Londra 2012, Rio 2016), 1 oro mondiale (Turchia 2010), 1 World Cup MVP (Turchia 2010).

Ci è voluto ben poco per capire che Kevin Durant fosse un giocatore speciale. Rookie dell’Anno nel 2008 con i Seattle SuperSonics e candidato Most Improved Player Of The Year nella stagione successiva (la prima degli Oklahoma City Thunder), al terzo anno da professionista ha debuttato all’All-Star Game, è stato incluso nel primo quintetto All-NBA e si è imposto come miglior realizzatore della lega. Per non farsi mancare nulla, ha vinto da MVP l’oro mondiale con Team USA in Turchia.
Visto l’inizio, era chiaro che KD fosse destinato a grandi cose. Guidati da lui, con il prezioso supporto di Russell Westbrook e James Harden, i giovani Thunder hanno bruciato le tappe: nel 2010 sono arrivati ai playoff (eliminati dai Los Angeles Lakers, futuri campioni), nel 2011 in finale di Conference (battuti dai Dallas Mavericks, idem come sopra) e nel 2012 alle NBA Finals. I Miami Heat dei ‘Big Three’ hanno spento il loro ardore giovanile, ma il futuro sembrava tutto dalla loro parte. Invece, tra la partenza di Harden e qualche infortunio di troppo nei momenti decisivi, OKC non è mai tornata all’appuntamento col destino. Negli anni in cui sia Durant che Westbrook sono rimasti in salute (2014 e 2016), la squadra ha sempre raggiunto le finali di Conference, ma Spurs e Warriors erano avversari troppo forti per chiunque. Nel frattempo, il numero 35 collezionava riconoscimenti individuali, su tutti il trofeo di MVP nel 2014. Che un fuoriclasse del genere non potesse competere per il titolo, era quasi un ‘delitto’.

Ecco, dunque, il punto di svolta. Il 4 luglio 2016, Durant ha annunciato il suo passaggio ai Golden State Warriors. Come nel caso di LeBron James, una scelta che gli ha procurato molti detrattori, ma che gli ha permesso di giocare (e di decidere) le partite che contavano davvero, di vincere da protagonista due titoli NBA e, aspetto non secondario, di migliorare esponenzialmente il suo gioco. Nella Bay Area, KD si è confermato un’inarrestabile macchina da canestri, ma è anche diventato un ottimo difensore e ha dimostrato di sapersi adattare alle esigenze della squadra e a quelle di altre star. Grazie a questa dote, non comune tra i giocatori di quel calibro, ha reso Golden State la squadra perfetta. Nel triennio di Oakland ha ‘dosato’ le energie in regular season (rinunciando a competere per un altro MVP) per poi scatenare la sua furia distruttiva ai playoff. Ne sanno qualcosa LeBron James e i Cleveland Cavaliers, spazzati via senza pietà nel 2017 e nel 2018. L’ultima apparizione in maglia numero 35 (ai Brooklyn Nets indosserà il 7) ha probabilmente contribuito a far diminuire la schiera dei suoi detrattori: 11 punti in 12 minuti, rientrando nel bel mezzo di una finale NBA dopo un mese di stop, poi il devastante infortunio al tendine d’Achille che ha fatto tramontare la Dinastia Warriors. Oggi Brooklyn, la NBA e tutti gli appassionati di basket aspettano con ansia il suo ritorno, pronti ad assistere al prossimo capitolo di una straordinaria carriera.

Sesto uomo – Russell Westbrook (Oklahoma City Thunder 2010-19)

Russell Westbrook, MVP nel 2017

Russell Westbrook, MVP nel 2017

Palmarès 2010-2019: 1 finale NBA (2012), 1 MVP (2017), 8 All-Star Game (2011-13, 2015-19), 2 All-Star Game MVP (2015, 2016), 2 All-NBA First Team (2016, 2017), 5 All-NBA Second Team (2011-13, 2015, 2018), 1 All-NBA Third Team (2019), 2 volte miglior realizzatore NBA (2015, 2017), 2 volte miglior assistman NBA (2018, 2019), 3 stagioni in tripla-doppia di media (2017-19), 1 oro olimpico (Londra 2012).

Probabilmente, la reale percezione dell’impatto di Russell Westbrook sulla lega si avrà solo diversi anni dopo il suo ritiro. Oppure basterà quel benedetto Larry O’Brien Trophy, che troppo spesso sancisce l’improvvisa trasformazione di un giocatore da “sopravvalutato” a “vincente”. Certo, senza il titolo NBA è difficile considerare ‘completa’ una carriera a livelli così alti ma Westbrook, nell’ultimo decennio, ci ha indubbiamente provato, cancellando più volte la parola “impossibile” dai nostri vocabolari.
Sin dal primo giorno a Oklahoma City, dove è arrivato nel 2008 insieme ai Thunder, il ragazzo da UCLA ha messo bene in chiaro le sue intenzioni. ‘Prigioniero’ di un fisico troppo esplosivo per essere controllato in ogni situazione, ha portato in campo una furia agonistica senza pari e un’etica del lavoro che ha impressionato tutti: allenatori, compagni, avversari. La sua inarrestabile progressione è andata di pari passo con quella della squadra: nel 2011 il primo All-Star Game, nel 2012 una finale NBA chiusa a 27 punti di media, con una gara-4 da 43 punti. L’infortunio al ginocchio e le tre operazioni subite nel 2013 hanno compromesso le speranze di vittoria dei Thunder, ma non hanno affatto rallentato la carriera del giocatore. Anzi, col passare degli anni, Westbrook si è affermato come una delle stelle più luminose del firmamento NBA. Tralasciando le triple-doppie o i due trofei di All-Star MVP, ‘Russ’ si è dimostrato la spalla ideale di Kevin Durant, formando con lui una coppia che ha terrorizzato la lega. Nel 2014 e nel 2016, i Thunder sono arrivati a un passo dalla meta, arrendendosi al cospetto di squadre leggendarie (Spurs e Warriors).

Con l’addio di KD (per cui si è andati decisamente oltre, con le polemiche), il numero 0 ha scatenato la sua furia sull’intera NBA. La stagione 2016/17 è stata qualcosa di inimmaginabile, sul piano individuale; 42 triple-doppie (record all-time) e la tripla-doppia di media (con 31.6 punti di media, miglior realizzatore NBA) che gli ha permesso di eguagliare un’impresa all’apparenza irripetibile, quella compiuta da Oscar Robertson nel 1961/62. Il trofeo di MVP è stata una naturale conseguenza, ma Westbrook sapeva che il trofeo più importante si conquista a giugno. La dirigenza gli ha affiancato (con fortune alterne) Carmelo Anthony e Paul George, e lui ha cercato in tutti i modi di favorirne l’inserimento. La sua media realizzativa è nettamente calata (25.4 punti nel 2017/18, 22.9 nella stagione successiva), ma Westbrook ha trovato il modo per riscrivere ulteriormente i libri di storia: le stagioni in tripla-doppia di media sono diventate tre, consecutive. OKC è uscita prematuramente dai playoff in ognuna di queste stagioni, per cui alcuni ‘attenti osservatori’ hanno tratto una conclusione folgorante: “colpa di Westbrook, è un perdente”. Non c’entrano l’alchimia di squadra, gli infortuni o il livello degli avversari, è colpa delle sue triple-doppie. Senz’altro i limiti del giocatore, soprattutto in termini di decision-making nelle fasi calde, hanno pesato, ma a certi livelli avere a disposizione un fuoriclasse di tale portata fa comodo a chiunque. Ora toccherà a Mike D’Antoni dimostrarlo; con il progetto Thunder definitivamente tramontato, Russell si è riunito a James Harden in Texas, con l’obiettivo comune di mettere a tacere i detrattori. E’ davvero così saggio scommettere contro di loro?

 

Coach – Steve Kerr (Golden State Warriors 2014-19)

Steve Kerr ha guidato Golden State a tre titoli NBA

Steve Kerr ha guidato Golden State a tre titoli NBA

Palmarès 2010-2019: 3 titoli NBA (2015, 2017, 2018), 5 finali NBA (2015-19), 1 Coach Of The Year (2016), 2 volte All-Star Game Head Coach (2015, 2017), miglior record vittorie-sconfitte in una stagione NBA (73-9, 2015/16).

Certo, avere a disposizione due dei più grandi giocatori della storia e ‘comprimari’ del calibro di Klay Thompson, Draymond Green e Andre Iguodala offre un importante aiuto nel raggiungimento di cinque finali consecutive e tre titoli NBA. Ciò premesso, sarebbe criminale sostenere che Steve Kerr si sia semplicemente seduto sulla panchina giusta e abbia assistito da una postazione privilegiata allo spettacolo dei Golden State Warriors. Steve Kerr è stato un pilastro insostituibile della Dinastia.
Quando Bob Myers lo ha chiamato a Oakland, nel 2014, l’unica esperienza NBA di Kerr, dopo il ritiro come giocatore, era stata il triennio come general manager dei Phoenix Suns (2007-10). Si è trovato fra le mani un gruppo pieno di talento, assemblato e coltivato alla perfezione nell’era Mark Jackson, che sembrava però destinato a percorrere la stessa strada di quei Suns: divertire il pubblico e infrangere record, senza mai vincere. Invece i suoi Warriors non solo hanno infiammato le arene d’America e rivoluzionato il gioco del basket, ma nel farlo hanno vinto, dominato, perso, rivinto e stravinto.

Con l’indispensabile contributo di giocatori unici, il biondo nato in Libano ha creato una cultura vincente che, nella Bay Area, non si era mai vista. Nemmeno ai tempi di Rick Barry, quando la NBA era una terra senza padroni. Ha saputo gestire due talenti generazionali come Stephen Curry e Kevin Durant, facendo sposare loro l’idea che rinunciare a qualche (raggiungibilissimo) traguardo individuale avrebbe potuto portare la squadra a una continuità di risultati non comune, per i moderni standard NBA. E’ riuscito a sfruttare al meglio le caratteristiche, opposte caratterialmente e complementari tecnicamente, di Thompson e Green, rendendoli i leader di una delle migliori difese nella storia del gioco. Ha avuto il merito di saper coinvolgere fino all’ultimo elemento della rotazione, rendendo giocatori come Quinn Cook, Alfonzo McKinnie, Zaza Pachulia, Ian Clark, Patrick McCaw, JaVale McGee e Nick Young parte attiva di una squadra da titolo. Soprattutto, è stato in grado di architettare un sistema di gioco basato principalmente sull’improvvisazione, sulla reazione alle scelte difensive, in cui però ogni giocatore fosse perfettamente conscio del proprio ruolo e dei propri spazi.

Forse il compito più difficile, in questi anni gloriosi, è stato mantenere inalterata la ‘fame di vittoria’ dei suoi giocatori, cercando motivazioni extra e gestendo con intelligenza i momenti di difficoltà del gruppo e dei singoli (memorabili i time-out in cui incoraggiava Steph Curry, afflitto dalle scarse percentuali). Di sicuro Steve Kerr avrà assimilato molti pregi dei suoi maestri, Phil Jackson e Gregg Popovich ma, per prendere da esordiente il timone di un veliero e trasformarlo in una corazzata inaffondabile (o quasi), ci deve aver messo per forza qualcosa di suo.

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