I 14 giugno 2019, gara 6 delle NBA Finals. L’atmosfera di speranza della Oracle Arena di Oakland viene progressivamente spenta dal trionfale entusiasmo degli ospiti, i Toronto Raptors. 114-110 in favore degli avversari al suono della sirena, l’ultima della stagione. Il grido di vittoria proveniente dal ‘Jurassik Park‘ di Toronto arriva fino alla lontana California, dove una franchigia data per spacciata all’inizio della serie diventa campione contro il più duro e ostico degli avversari. Migliaia di chilometri di fatto, appena pochi metri nella mente dei protagonisti.
Dopo svariate annate segnate dal leggendario dominio fra Warriors e Cavaliers, fra Steph Curry e LeBron James, la magia del basket conduce al più sorprendente degli stravolgimenti. Il cuore e la determinazione di Toronto spezza la ciclica continuità di una Golden State di diritto nella storia per quanto raccolto fin lì e, insieme a loro, dei Raptors. Una squadra semplicemente incredibile, capace di trionfare nell’appuntamento più importante alla prima apparizione alle Finals.

Kawhi Leonard con in mano il Larry O’Brien Trophy.
Un’impresa leggendaria, nella più pura e iconica delle accezioni che l’espressione può trovare. Un titolo che porta con sè 25 anni di lenta ma inesorabile continuità, da parte di una franchigia nata in sordina e in grado di regalare non soltanto alla città di Toronto, ma a un popolo intero, la più grande delle soddisfazioni che il basket è in grado di offrire. Un anno è ormai passato da quelle storiche finali, divenute iconiche non soltanto per il Canada ma per lo sport nordamericano nel suo insieme.
Appuntamento con la storia per i Toronto Raptors
Le premesse che fungono da biglietto da visita dei Raptors alle Finals sono diametralmente opposte, in virtù del punto di vista con cui le si analizza.
Da un lato, infatti, il percorso di Toronto ai playoffs ha il sapore di promettenti premesse in grado di far pensare di poter realizzare qualunque impresa. Come effettivamente è successo. Dal record in regular season di 58-24 (a sole due vittorie dai Bucks primi in Eastern Conference) alle semifinali contro i Sixers, spediti a casa dal più iconico dei buzzer beaters degli ultimi anni (segno del destino per eccellenza per i Raptors). Quindi le finali a Est contro Milwaukee, segnate da una reazione a dir poco clamorosa da parte dei ragazzi di coach Nick Nurse (da 0-2 a 4-2 nella serie), capaci di trovare nel mentre una quadratura del cerchio negli equilibri che rasenta la perfezione. Segnali, come appunto premesso, più che incoraggianti, alimentati dalla consapevolezza di aver sconfitto fin li gli avversari probabilmente più ostici dell’Est.
Il buzzer beater di Kahwi Leonard in Gara 7 contro Philadelphia consegna a Toronto le finali di Conference (90-92 il punteggio finale). Si tratta senz’altro del momento più iconico dei playoffs dei canadesi prima delle finali contro Golden State.
Nel rovescio della medaglia, tuttavia, non bisogna dimenticarsi certo di quel che viene poi. Senza ombra di dubbio il rivale più ostico e complicato che poteva incrociare il cammino dei Toronto Raptors. Golden State, d’altro canto, si è consacrata per anni come l’avversario da battere, creando una vera e propria cultura della vittoria e del successo fra le proprie fila, foraggiata da campioni e MVP del calibro di Steph Curry, Klay Thompson, Kevin Durant, e ancora Draymond Green, Andre Iguodala e Shaun Livingston, tanto per citarne alcuni.
Qualsiasi fattore di partenza sembra giocare in favore degli Warriors: esperienza, lucidità mentale per incontri come questi, pronostico in favore, campioni a confronto. Per non parlare di un fatto su tutti, quello della concretezza: cinque partecipazioni consecutive alle finali con tre titoli conquistati. Il primo merito dei Toronto Raptors è dunque quello di aver sfruttato l’unico punto in proprio favore, dettato dall’immortale principio del ‘non aver nulla da perdere‘. Il resto, poi, va a creare la magia di queste iconiche Finals. La dimensione per eccellenza, in grado di distinguere le buone squadre dalla grandi, quindi queste ultime dalle dinastie. Un qualcosa che Golden State, già dalla vigilia, è riuscita a raggiungere negli ultimi anni. Ed è questa, a conti fatti, la montagna che Toronto si trova a scavalcare e in cui, sorprendentemente, trionfa.
Sintetica terminologia
Spesso singoli termini fungono da eloquenti fattori di chiara sintesi nell’inquadrare emozioni e momenti di una squadra. Nell’analisi delle Finals di Golden State, anzitutto, più che un singolo termine risulta azzeccata una frase su tutte. “I Warriors sono il peggior nemico di loro stessi”. In molti, d’altro canto, riconducono la sconfitta contro i Raptors a demeriti dei campioni più che meriti degli avversari; un punto di vista comprensibile in un certo senso, ma piuttosto riduttivo nell’analisi complessiva.
Si tenga conto anzitutto che il percorso per giungere all’appuntamento finale è tutt’altro che lineare e tranquillo. Dallo scontro in spogliatoio a novembre tra Kevin Durant e Draymond Green all’infortunio di Steph Curry prima e di molti altri big poi, quindi il recupero e il nuovo problema per DeMarcus Cousins. Tutte pessime notizie, insomma, a livello di morale e spogliatoio, che fungono tuttavia da stimolo indiretto ad accendere la miccia sul parquet.
Il primo termine della nostra analisi è ‘normalità‘. È questo l’obbiettivo cardine degli Warriors in queste Finals, ristabilire quelle gerarchie che li vedono in favore e spegnere l’entusiasmo di Toronto in Gara 1. Al secondo atto gli Warriors sembrano poter dimostrare di essere in grado di riconfermarsi per l’ennesima volta come i migliori. Dedizione, fatica, esecuzione tecnica, un cuore enorme e una presenza mentale inscalfibile sono tutti fattori che colorano il gioco dei campioni. I 48 punti degli Splash Brother (25 per Curry, 23 per Thompson) e soprattutto il principio dello ‘strenght in numbers‘ (GD realizza 34 assist vincenti su 38 canestri segnati, di cui 22 su 22 nel secondo tempo) contrastano la sicurezza in campo costruita da Toronto nel primo tempo, riconsegnando equilibrio, competitività e normalità alla serie. Ma soltanto apparente.
In Gara 2 i Warriors recuperano fiducia e fluidità nella propria pallacanestro. Fra i vari fattori si consideri un netto dominio alla voce assist (34 di GS contro i 17 dei Toronto Raptors).
Il termine successivo è senz’altro quello principe nel destino degli Warriors: infortunio. Una parabola costante e infallibilmente ancorata alla serie di Golden State. Durant, Looney e Thompson mancano in Gara 3 e in Gara 4 non basta il ritorno sul parquet degli ultimi due citati per invertire il ciclo negativo cui non si riuscirà a porre rimedio. In riferimento al fattore infortuni si potrebbe quasi parlare di ‘congiunzioni astrali‘. In netto sfavore per gli Warriors e per spettacolo complessivo della serie. L’infortunio di Kevin Durant a meno di 10′ dall’intervallo e l’uscita in Gara 6 di Thompson per un problema, l’ennesimo, al ginocchio si rivelano ostacoli insormontabili. Per il numero 35 la serie è probabilmente il momento più controverso in carriera. Soltanto 12, d’altro canto, i minuti disputati nell’intera serie, a fronte di 11 punti e 2 rimbalzi.
L’infortunio di KD in Gara 5, a detta dei più, sentenzia la definitiva sconfitta nella serie per Golden State. Toronto a quel punto non può non approfittarne.
In tutto questo sia chiaro, il cuore e l’orgoglio di Golden State non restano imperterriti. La rabbia agonistica dei campioni mostrata in Gara 5 ne è l’esempio più eloquente. La la squadra non ci sta, i suoi rappresentanti vogliono reagire con l’orgoglio di chi diventa grande a suon di gloriosi trionfi. Ed ecco che Curry (31 punti) e Thompson (26 punti) rifilano a Toronto un controbreak di 9-0 in un finale che vede i Toronto Raptors costretti ad arrendersi. Ma la rabbia, nello sport, da sola non è sufficiente. Lo sa bene Toronto, la cui voglia di vincere alla fine ha prevalso in Gara 6, quando l’uscita prematura dal campo, l’ennesima, di Klay decreta l’ennesimo punto in sfavore dei campioni in carica.
Toronto Raptors: testa e cuore di gruppo
Dalla parte di Toronto, invece, è facile sfociare nei banalismi. L’impresa realizzata dagli uomini di coach Nurse è sotto gli occhi di tutti. Unica, intensa, romantica e a tratti impareggiabile nel portato che rappresenta per tutto un popolo rappresentato da quel quintetto.
La prima menzione è dedicata naturalmente all’MVP della serie, a quel Kawhi Leonard che in un anno completa la sua missione. È arrivato a Toronto, dopo gli anni a San Antonio, per provare a vincere e lo ha fatto subito, con quel suo glaciale temperamento direttamente proporzionale al talento espresso sul parquet. Nella serie conferma il suo ruolo di stella indiscussa (per lui una media di 28.5 punti, 9.8 rimbalzi e 4.2 assist in queste Finals) e si dimostra concreto nei diversi momenti dell’incontro, nonostante la costante (e comprensibile) marcatura che Golden State gli ha riservato lungo il cammino. Continuo e onnipresente, questi i cardini delle due fasi del suo gioco. Semplicemente il giocatore più completo della lega, allora e probabilmente ancora adesso, a distanza di un anno.

Fred VanVleet e Kawhi Leonard.
L’appunto immediatamente successivo, poi, è rivolto a Fred VanVleet. L’eroica marcatura a tutto campo su Steph Curry partita dopo partita lo ha reso di diritto la mascotte del Jurassik Park. Nel corso delle Finals ha saputo confermare la costante crescita sul parquet mostrata nel corso dell’anno, tale da renderlo imprescindibile per coach Nurse. E i numeri sono tutti dalla sua parte: 14 punti, 2.7 rimbalzi e 2.2 assist di media. Ma soprattutto il cuore va sottolineato, la voglia di mettersi in gioco e di reggere i livelli dei palcoscenici più importanti, capaci di renderti grande. E lui, col suo gioco dinamico, calmo e acceso al tempo stesso, figlio della volontà di dare tutto fino alla fine, lo ha conquistato.
Eroica e costante, così si potrebbe definire la pressione di VanVleet su Curry nel corso della serie. Situazioni che spesso hanno indotto il campione di GS all’errore.
“Io perdo sempre la testa quando sbaglio, poi guardo lui e lo vedo sempre tranquillo. Mi basta un suo sguardo per calmarmi. Fred è uno di quei giocatori che è meglio avere dalla propria parte”. Dirà così Pascal Siakam dopo la prestazione del compagno in Gara 3. E a proposito del nigeriano, l’MIP (Most Improved Player) del 2019 ha davvero ragione di essere definito tale. I 32 punti con un incredibile 14/17 al tiro hanno fatto capire fin da subito le proprie intenzioni a tutti, nessuno escluso: brillare e diventare grande per davvero. Missione più che compiuta da parte dell’ala grande (nella serie ha saputo mantenere una media di 19.8 punti, 7.5 rimbalzi e 3.7 assist), il cui gioco fornisce energia ed elasticità nelle due fasi, unita alla costante volontà di apprendere e migliorare.
I cambi di ritmo mostrati in transizione, fondamentale nel quale è cresciuto e divenuto uno dei migliori nella lega, dal post e in situazioni di spot-up a togliere costante ritmo agli avversari. Dulcis in fundo il sensibile miglioramento nel tiro in sospensione (in due anni è passato dal 22% su 1.6 tentativi al 42.4% su quasi sei tentativi da tre).
C’è poi da dedicare una parentesi d’eccezione alla reazione in corso d’opera da parte di Serge Ibaka. Dopo un inizio piuttosto controverso in cui ha manifestato la pressione (Gara 1 e 2 certamente da dimenticare per lui) è subentrata la reazione. Il lungo si è preso anzitutto responsabilità d’eccezione al tiro (ha chiuso la serie con una media realizzativa di 11.3 punti con una percentuale al tiro del 55%). Ma soprattutto ha dimostrato ottime letture non solo nel posizionamento, in particolare nelle letture negli “short roll” per punire i costanti raddoppi su Leonard, ricevendo e muovendo quindi il pallone con i tempi giusti.

Serge Ibaka e Pascal Siakam.
La testa e il cuore di Kyle Lowry, quindi, hanno fatto il resto. Fattori di un campione che racchiude in sè l’essenza della continuità targata Raptors (a Toronto dal 2012). Numeri ottimi (media di 16.2 punti, 4 rimbalzi e 7.2 assist) a testimonianza di una leadership totale e pragmatica, capace di tirare fuori il meglio da sè e dalle caratteristiche dei compagni. Uno stile di gioco in pieno stile Raptors, con coach Nurse capace di creare un meccanismo in grado di coniugare entusiasmo e poliedrica organizzazione nelle due fasi. Una way of play rivelatasi vincente nel valorizzare le singole caratteristiche degli interpreti, così diversi eppure così essenziali.
We the North, il credo dei Toronto Raptors
Vi è una sottile differenza tra chi diventa leggenda e chi viene dimenticato. Un filo sottile, fievole, eppure concreto e tangibile, che funge da spartiacque fra gli attori in scena. L’NBA, così come la vita, insegna che la storia è fatta dai vincitori per i vincitori, e la vittoria di Toronto del primo anello nella sua storia è ciò che davvero rimarrà di quelle Finals.
Da un lato si trova il tracollo di Golden State. Una sconfitta doppia, nell’immediato e nel futuro prossimo della franchigia, in virtù del disastroso seguito mostrato quest’anno. L’addio di Kevin Durant in direzione Brooklyn ha iniziato l’opera. La mancata partecipazione alla fase finale di Orlando, quindi, completa il tangibile fallimento dal quale dover necessariamente ripartire.
Nei fatti, quindi, rimane tutt’ora il lascito di quella vittoria. La tangibile creazione di un sistema consapevole di quel che ha realizzato e che non ha avuto paura di ripartire. Il puntare su Pascal Siakam ipotecandone il futuro (economico e sportivo), a fronte degli addii di Kahwi Leonard e di un Danny Green prezioso ed essenziale (la riserva più impiegata è cresciuta moltissimo, tanto da guadagnarsi la chiamata a LA, sponda Lakers), ne è l’esempio migliore. Il sistema dei Raptors ha saputo mantenersi costante e vincente fin qui, quando ancora una volta le speculazioni generali li davano per finiti a fronte delle pesanti cessioni. Ma così non è stato, almeno fin qui. E chissà che Toronto non riesca a mantenersi sugli alti livelli che negli ultimi anni è stata in grado di dimostrare, in vista della ripresa.
Al netto di quanto dimostrato fin qui (record parziale in stagione di 46-18) la volontà è quella di mantenersi competitivi in quello che sembra a tutti gli effetti trattarsi di un anno di transizione. Andando dunque a confermare quelle promettenti fondamenta per reimpostare al meglio il futuro della franchigia.
NB: le statistiche utilizzate nell’articolo fanno fede alla data di pubblicazione dello stesso.