Otto. Otto persone che sviluppano un legame telepatico, un’empatia di altissimo livello, una connessione psichica che li rende in grado di comunicare mentalmente tra loro e condividere abilità e conoscenze. L’avete già sentita? Sì, potrebbe essere la trama di Sense8, la cui cancellazione programmata da Netflix ha provocato le vibranti proteste dei fan, che sono state ascoltate.
Oppure potrebbe essere lo script dei Nuggets 2017/2018, con conclusione simile a quella appena citata se anche questa stagione dovesse essere avara di soddisfazioni per Denver.
Intendiamoci: Michael Malone non è uno stratega al livello delle sorelle Wachowski (Matrix) o Straczynski (Babylon 5), le menti dietro il successo di Sense8, ma ha tra le mani otto giocatori la cui chimica risulterà cruciale per le sorti dei Nuggets. Trattasi di, in ordine di ruolo, Jameer Nelson, Emmanuel Mudiay, Will Barton, Kenneth Faried, Wilson Chandler, Paul Millsap, Darrell Arthur e, ça va sans dire, Nikola Jokic.
Due play, tre esterni con punti nelle mani, due ali versatili, un lungo interno, uno tiratore e il centro di cui è stato detto tanto da rendere superflue ulteriori presentazioni. Logico che il 5 serbo conti che la propria squadra si riveli una sorpresa. Meno logico che invece questo accada, perché (giova ricordarlo) Denver non gioca una gara di postseason dal 2013.
Quando fu allontanato George Karl, e non è un’ipotesi così peregrina pensare che sia allora, e non quest’estate con la partenza di Danilo Gallinari, che i Nuggets hanno perso il loro top player. Non paia una provocazione fine a sé stessa, perché Denver nel 2004 tornò ai playoff dopo un decennio grazie a Carmelo Anthony, ma fu grazie all’arrivo l’anno successivo di Karl che si stabilizzò. Il coach di scuola UNC è un personaggio che ha fatto e fa discutere, chiaro, ma la sua competenza mette tutti d’accordo. Prova ne sia la splendida stagione 2012/2013, con i Nuggets condotti al terzo posto in stagione regolare e poi usciti al primo turno contro i primi vagiti dei Golden State Warriors che ora tremare il mondo fan. Denver negli anni ha perso fior di stelle (Camby, Miller, Martin, Iverson, Melo, Billups) ma è sempre arrivata in alto perché aveva uno sul pino che conosceva il gioco come pochi.
Perso Gallinari in favore dei Clippers, prima punta dell’attacco del Colorado quando era integro, ora i Nuggets per riagguantare i playoff devono fare fronte comune ed essere un cuore solo e un’anima sola.
Malone, non ce la si prenda a male, non è George Karl. È un coach preparato, si è abbeverato a fonti importanti (Don Chaney, Mike Brown, Mark Jackson) ma ha allenato da capo solo tre stagioni e spicci, a Sacramento ha ballato poco più di una stagione e a Denver non ha vinto più delle quaranta dell’anno passato. L’esperienza quindi non è il suo forte, e a meno che il front office dei Nuggets non decida di silurarlo a stagione in corso (è libero uno come Scott Skiles, per dire…) toccherà ai giocatori farsi carico di riportare i Nuggets a giocare a metà aprile.
Nelson dovrà tornare a colpire dal palleggio, Mudiay essere guizzante, Harris colpire da fuori e da dentro, Faried dare sostanza, Chandler prendere rimbalzi, Arthur aprirsi e Jokic creare. E dovranno essere tutti sulla stessa lunghezza d’onda. Fondamentale sarà il ruolo di Millsap, su entrambe le metà campo: quando ci sarà da colpire l’avversario, l’ex Atlanta Hawks dovrà garantire opzioni dal post e giocare coi compagni molti pick and pop/roll; in difesa avrà il compito di sopperire le lacune del compagno di reparto, quel Jokic tanto fragile in ambito protezione ferro (e non solo). Con le sua esperienza e versatilità, il buon Paul può essere il trascinatore tecnico del team
I Nuggets, come i concittadini Broncos, sono a un giocatore top da diventare davvero una mina vagante e un pericolo per tutti quelli che non hanno scritto Warriors sul petto. Per il momento non c’è, ma non è detto non possa arrivare o rivelarsi tra quelli che sono già nel roster. I playoff sono possibili, il resto… si vedrà.