Dirk Nowitzki, Tony Parker e Pau Gasol hanno reso un festival europeo la serata della classe 2023 della Naismith Basketball Hall of Fame. I tifosi di Dirk hanno sventolato una bandiera tedesca e cantato il nome di Nowitzki quando l’ex star dei Dallas Mavericks è arrivata sul red carpet nella Symphony Hall per la cerimonia di introduzione. Quelli di Tony Parker hanno esultato quando è salito sul palco per primo. “Ci sono parecchi francesi in città. Mi dispiace“, ha detto l’ex star dei San Antonio Spurs.
Anche la Spagna era ben rappresentata, con Pau Gasol che ha omaggiato la sua nazionale, la “mi familia“, prima di pronunciare il suo discorso di accettazione in una classe della Hall of Fame stellare, come forse mai prima d’ora. “Voglio fare una menzione speciale a quei primi giocatori europei, che sono venuti qui, dall’altra parte dell’oceano, che hanno colto l’occasione“, ha detto Gasol, che ha raccontato di essersi innamorato del basket alle Olimpiadi del 1992 nella sua città natale, Barcellona. “Avevo 12 anni. Mi ha cambiato la vita. Il Dream Team ci ha mostrato come si gioca a basket“.
Presentato sul palco da un altro grande giocatore europeo, Toni Kukoc, Pau ha poi chiuso il suo discorso con un omaggio a Kobe Bryant, il suo compagno di squadra e di titoli NBA ai Los Angeles Lakers tra 2009 e 2010. Un omaggio breve ma sentito, commosso, tenuto alla fine a ricordare il Black Mamba anche in una serata dedicata al campione catalano: “Alla persona che ha saputo elevare il mio gioco più di ogni altra, e che mi ha mostrato quando duramente bisogna lavorare per diventare il migliore, fratello mio, senza di te non sarei qui oggi. La cosa che vorrei più d’ogni altra cosa è che tu e Gigi foste qui oggi. Mi manchi e ti voglio bene“.
Un altro momento speciale della serata è stato il discorso di accettazione di Becky Hammon, oggi head coach delle Las Vegas Aces e già assistente allenatore di Gregg Popovich ai San Antonio Spurs, e una delle più grandi giocatrici di sempre. Hammon ha ringraziato, tra gli altri, proprio coach Pop seduto in platea, ricordando quando l’allenatore degli Spurs decise di assumerla come assistente un anno dopo il suo ritiro da giocatrice: “So che non volevi sembrare solo coraggioso quando mi hai assunta, hai cambiato la traiettoria della mia vita e quella di tante altre ragazze e giovani donne. Tutte le volte che mi sono sentita dire di no, che ho trovato solo porte sbattute in faccia o in cui ho dovuto sgomitare per farmi spazio, non cambierei nulla dei momenti più duri, perché questi ti fanno trovare il coraggio per affrontare ciò che arriverà in futuro“.
Il mattatore della serata, ed era un pronostico facile, è stato coach Popovich. L’allenatore più vincente nella storia della NBA aveva già rivelato che avrebbe accettato di entrare nella Hall of Fame solo dopo che i suoi ragazzi, David Robinson, Tim Duncan, Manu Ginobili e Tony Parker che erano sul palco assieme a lui, fossero stati introdotti. Oggi il cerchio della dinastia dei San Antonio Spurs si è completato anche nella Sala della Gloria del basket.
Pop ha ringraziato la sua famiglia e la moglie Erin, scomparsa nel 2018, spiegando il valore degli affetti oltre al proprio lavoro: “Anche io ho una famiglia, la gente pensa che io viva solo di basket. Ma un pallone da basket non può amarti, è solo uno strumento e io non l’ho mai sentito dire, ‘ti voglio bene, Pop’…“. A Tony Parker, il suo progetto per certi versi più riuscito perché il più “rischioso” dal punto di vista sportivo, Popovich ha detto a un punto del suo discorso: “Tony, da te ho preteso solo la perfezione. Se oggi lo allenassi nel modo in cui lo ho allenato, sarei in galera“, prima di raccontare che ai suoi tempi da giocatore a Air Force Academy, gli allenatori lo cacciavano spesso dagli allenamenti per il suo temperamento. E prima di chiudere il suo discorso con un siparietto, promettendo “di non aver ancora finito“, alla verde età di 74 anni, e di sgridare addirittura la NBA per aver “abbandonato” Seattle, dal 2008 senza una squadra dopo la fine dei SuperSonics: “Davvero, Seattle? Suvvia”.
Tony Parker ha voluto sottolineare quanto il “gruppo Spurs” oggi rappresentato anche nella Hall of Fame del basket, sia stato così eteregeneo e unico: “Un ragazzino francese, un tipetto dall’Argentina e un nuotatore caraibico. E oggi siamo tutti, qui. Facile, no?”.
“Tim Duncan“, ancora Parker “Lui non mi ha mai detto una sola volta di dargli il pallone, a lui bastava solo guardarti. E quando hai 19 anni e vieni dalla Francia, può essere spaventoso quando Tim Duncan ti guarda (…) quando Popovich mi disse, eravamo in aereo dopo la quarta partita della mia stagione da rookie, che sarei partito in quintetto, mi sentii così male da prendere un sacchetto per il mal d’area… ricordo che gli dissi, ‘ma lo hai chiesto a Timmy?’ (…) Ero un ragazzo che sognava in grande, e ho capito che quando racconti i tuoi sogni a qualcuno e questi non ridono di te, allora non stai sognando abbastanza in grande“.
Dwyane Wade, una delle più grandi shooting guard nella storia della NBA e colui che Pat Riley ha definito “il più grande giocatore di sempre dei Miami Heat“, è stato presentato sul palco da Allen Iverson, uno dei miti del giovane D-Wade che ha indossato il numero 3 in suo onore. Wade ha reso omaggio alle grandi figure del basket di Chicago, la sua città d’origine, e ha terminato il suo discorso chiamando suo padre, Dwyane wade Sr, sul palco: “Ce l’abbiamo fatta, siamo nella Hall of Fame, vecchio mio“, ha detto abbracciandolo.
Dirk Nowitzki, tra i grandi avvicendatisi sul palco sabato sera, è stato quello dotato di più humor. Il campione tedesco, presentato da Steve Nash e Jason Kidd, ha scherzato sugli inizi di carriera assieme al giocatore canadese a Dallas, e ricordato le rispettive pettinature “tremende”. Dirk ha poi ringraziato Don Nelson, il suo vecchio coach ai tempi dei Mavs che ha inventato per lui il ruolo di lungo con licenza di tirare da tre punti: “Quando sono arrivato nella NBA, nessuno voleva dei giocatori di 2.10 che tirassero da tre“, e i tanti ex compagni di squadra e allenatori presenti in sala, da Rick Carlisle a Avery Johnson e Michael Finley. Nowitzki non ha ovviamente dimenticato il suo leggendario coach, mentore e guru Holger Geschwindner, l’uomo che ha costruito la meccanica di tiro perfetta del giocatore tedesco, Dirk ha ricordato tutti gli esercizi particolari e poco ortodossi fatti negli anni, e così funzionali al suo successo in campo.