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NBA Jersey Stories – The rise and fall of Tracy McGrady

di Stefano Belli
Tracy McGrady-Tracy McGrady su Carmelo Anthony

Nell’ambito dello sport professionistico, si sa, “it’s all about winning”, le vittorie arrivano prima di ogni altra cosa, per questo, molto spesso, si tende a ricordare solo coloro che hanno vinto, stravinto, continuato a vincere: eppure la storia del basket NBA è stata scritta anche da giocatori che non solo non hanno mai vinto niente, ma che nemmeno ci sono andati vicino, ma nonostante tutto hanno fatto appassionare milioni di ragazzi dando loro quello che maggiormente cercavano guardando la pallacanestro USA, lo spettacolo; uno di questi personaggi che non ha vinto ma ha vivo il suo ricordo nei nostri cuori è Tracy McGrady.

Oggi non racconteremo la storia di una sola maglia, ma delle tante, perfino troppe casacche con cui ‘T-Mac’, al secolo Tracy McGrady, salì di prepotenza, per poi cadere tristemente, nell’Olimpo dei grandi della lega.

Nato in Florida e maturato alla Mount Zion Christian Acedemy (North Carolina), T-Mac guadagnò grande popolarità tra gli scout NBA grazie alle sue grandi performance ad un camp, organizzato da Adidas, che riuniva tutti i migliori prospetti liceali.
Le sirene del ricco mondo professionistico erano difficilmente resistibili, perciò Tracy decise di saltare il college e provare, seguendo le orme di Kevin Garnett e Kobe Bryant, il grande salto.
La prima maglia della carriera NBA di McGrady avrebbe potuto essere quella dei Chicago Bulls; il general manager Jerry Krause, infatti, aveva organizzato una trade con i Vancouver Grizzlies per mandare in Canada nientemeno che Scottie Pippen in cambio (anche) della quarta scelta al draft 1997, con cui sarebbe stato chiamato il giovanissimo T-Mac.
L’idea non piacque affatto (enorme eufemismo) a Michael Jordan, il quale convinse Krause a lasciar perdere. Così, con la nona scelta assoluta, TMC fu chiamato a vestire la bellissima maglia dei Toronto Raptors.

McGrady con la storica divisa dei Raptors

McGrady con la storica divisa dei Raptors

Nati solamente due anni prima, i Raptors, guidati in campo da Damon Stoudamire e Marcus Camby, cercavano di farsi un nome in una lega al tempo dominata da Jordan e dai suoi Bulls.
La stagione da rookie fu parecchio faticosa per McGrady, che vide il campo con poca continuità soprattutto per via della ‘scarsa etica lavorativa’ di cui lo accusava coach Darrell Walker. A stagione in corso, la guida tecnica passò a Butch Carter, che concesse al giovane Tracy qualche minuto in più.
T-Mac avrebbe dichiarato in seguito che Toronto appariva come una città estremamente noiosa per un diciottenne, e ciò lo demotivava anche ‘sul lavoro’.

La situazione, sia in campo che fuori, migliorò notevolmente dopo che i Raptors portarono in Canada, nell’estate del 1998, un lontano cugino di Tracy McGrady, destinato a far parlare molto di sé: la nuova, grande promessa da North Carolina, Vince Carter.
Carter e McGrady divennero inseparabili, aiutandosi a vicenda nella ‘tediosa’ quotidianità canadese e, soprattutto, portando alla squadra una freschezza e un atletismo che resero i Raptors una delle squadre (se non LA squadra) più spettacolari della lega.

Tracy McGrady, Vince Carter ed il dunk contest

Vince Carter e Tracy McGrady nel 2000

Vince Carter e Tracy McGrady nel 2000

Nella stagione 1999/2000, indossando la rinnovata divisa che sostituì la mitica maglia con il dinosauro, Tracy McGrady aiutò il ‘cugino’ a scrivere la storia dello Slam Dunk Contest (“It’s Over! It’s Over!”) assistendolo nelle sue indimenticabili schiacciate e competendo a sua volta in una gara che vide coinvolto anche Steve Francis.
Oltre a ciò, McGrady ebbe una notevole crescita di rendimento, partendo da riserva e finendo la stagione in quintetto.
Toronto si qualificò per i playoff, dove però fu spazzata via dai New York Knicks in un primo turno che si rivelerà un maledetto tabù per tutta (o quasi, come vedremo più avanti) la carriera di T-Mac.

Al termine di quella ottima stagione, McGrady divenne free-agent. Le pretendenti non mancavano di certo, alla luce dei grandi miglioramenti mostrati nell’ultimo periodo canadese, ma l’offerta degli Orlando Magic era davvero una di quelle, come direbbe Don Vito Corleone, “che non si possono rifiutare”; non solo TMC avrebbe avuto la possibilità di tornare nella sua amata e soleggiata Florida, ma avrebbe addirittura vestito la maglia numero 1 appartenuta al suo grande idolo, Anfernee ‘Penny’ Hardaway!
Oltretutto, i Magic avevano grandi progetti: dopo alcune stagioni buie erano pronti a tornare in alto e, per farlo, avevano chiamato uno dei più forti giocatori disponibili sulla piazza: Grant Hill, ex leader dei Detroit Pistons.
Fu dunque facile la scelta di T-Mac, che nell’estate del 2000 sbarcò a Disneyworld.
La stella di TMC era pronta ad esplodere.

TMC nella prima stagione ad Orlando

TMC nella prima stagione ad Orlando

In effetti era proprio cosparsa di stelle la nuova maglia di Orlando, con cui Tracy McGrady visse la parte più esaltante della sua carriera.
Ben presto si scoprì che Grant Hill non avrebbe mai superato i gravi guai fisici che lo attanagliavano fin dai tempi di Detroit, per cui T-Mac si prese tutta la squadra sulle spalle. Se da un lato l’assenza di Hill minava le ambizioni del team, dall’altro permise al numero 1 di mettere in luce tutto il suo strabordante talento.

Al primo anno con i Magic, sotto la guida del giovane coach Doc Rivers, McGrady divenne una superstar; 26.8 punti di media (contro i 15.4 della stagione precedente), secondo quintetto All-NBA e prima convocazione in carriera ad un All Star Game.
Questo exploit regalò a T-Mac il primo ed unico trofeo della sua carriera NBA, quello di Most Improved Player Of The Year.
La prima stagione ad Orlando si concluse come l’ultima a Toronto (e come molte altre negli anni a venire), ovvero con un’eliminazione per 4-0 al primo turno di playoff, stavolta per mano dei Milwaukee Bucks.

Anche il 2001/2002 finì allo stesso modo (con i Magic sconfitti dagli Hornets, in procinto di trasferirsi da Charlotte a New Orleans), ma TMC fece in tempo a lasciare ai posteri un episodio leggendario.
Nel corso di un All Star Game infuocato dal duello con l’altra star emergente Kobe Bryant, McGrady portò palla oltre la metà campo. Quando sulla sua strada si pararono Steve Nash e Dirk Nowitzki, ‘The Big Sleep’ (così soprannominato per via dell’espressione apparentemente ‘poco sveglia’) ebbe un’idea fulminante che, non appena divenne realtà, fece letteralmente esplodere il First Union Center di Philadelphia:

La stagione seguente, a livello individuale, fu quella della consacrazione. T-Mac fu il miglior realizzatore NBA (con la strabiliante media di 32.1 punti a partita), nonchè il giocatore più votato per la gara delle stelle, quella dell’addio di Michael Jordan ‘rovinato’ da Kobe Bryant.
Memorabili i 46 punti con cui TMC distrusse i Pistons la sera di Natale del 2002. Alla fine della partita dedicò la sontuosa prestazione ad un ragazzo presente in prima fila. Scampato da poco al massacro di uno dei tanti ‘killer improvvisati’ di cui è tristemente piena la storia statunitense, quel giovane aveva T-Mac come idolo incontrastato.

Tracy era ormai una superstar assoluta, e i fan di tutto il mondo aspettavano con ansia una sfida alle NBA Finals tra i suoi Magic e i Lakers di Kobe & Shaq. Una sfida che, però, non ebbe mai luogo.
La maledizione del primo turno si abbatté su McGrady anche ai playoff del 2003.
Pur essendo in vantaggio per 3-1, grazie anche ad una gara-2 da 46 punti di ‘The Big Sleep’, Orlando riuscì incredibilmente a farsi rimontare da Detroit, che vinse la serie in sette partite.

T-Mac contro il rookie LeBron James

T-Mac contro il rookie LeBron James

Il 2003/2004 portò ad Orlando un restyling delle maglie, stavolta senza tutte quelle stelle, ma non un miglioramento dei risultati, anzi…
Con Grant Hill fuori per tutta la stagione, non bastò un T-Mac al suo meglio (chiedere per conferma ai Washington Wizards, mitragliati dai 62 punti del numero 1) e nuovamente capocannoniere della lega: i Magic non solo mancarono l’accesso alla post-season, ma finirono addirittura ultimi nella Eastern Conference.
Rivers fu cacciato a stagione in corso, e fra TMC e la dirigenza emersero i primi dissapori; la fine della ‘love story’ tra la franchigia del Sunshine State e la sua più grande star appariva ormai inevitabile.
Poco dopo la fine della stagione e di un draft in cui, con la prima scelta assoluta, Orlando chiamò Dwight Howard, venne ufficializzata una trade che portò in Florida Steve Francis e che diede inizio ad un nuovo capitolo della carriera al top di Tracy McGrady.

 

 

La terza maglia con cui T-Mac diede vita alla sua leggenda fu quella bianca e rossa degli Houston Rockets.
Come ad Orlando con Hill, anche in Texas McGrady fu messo al centro di un progetto fondato, oltre che su di lui, su una superstar tanto forte quanto fragile: il gigantesco centro cinese Yao Ming.

TMC e Yao Ming

TMC e Yao Ming

A poco più di un mese dal debutto con la nuova squadra, TMC fu protagonista della più incredibile prestazione individuale di sempre in un finale di partita.
A fare visita al Toyota Center, quel 9 dicembre 2004, c’erano i grandi San Antonio Spurs di Gregg Popovich e Tim Duncan i quali, a 36 secondi dalla fine, si trovavano su un più che confortevole +8.
Partita finita e tutti a casa, quindi. O forse no, perché T-Mac decise che il finale sarebbe stato diverso

Al termine di quell’irripetibile gara, Tracy commentò: “Mi dispiace per quelli che sono andati via prima, non sanno cosa si sono persi”.

Yao e Tracy McGradyl’All tar Game 

Yao e T-Mac partirono titolari per la Western Conference in un All Star Game che vide tra gli highlights un incredibile duello a suon di canestri da dieci metri fra McGrady e ‘Agent Zero’ Gilbert Arenas.
Guidati dalla nuova coppia di All-Star, i Rockets guadagnarono l’accesso ai playoff con la quinta testa di serie.
La serie al primo turno fu un combattutissimo derby texano contro i Dallas Mavericks di Dirk Nowitzki e Jason Terry. Houston riuscì a vincere le prime due partite a Dallas grazie ad uno strepitoso TMC, che in gara-2 segnò il canestro decisivo. Poco prima, McGrady aveva impresso per sempre la sua maglia rossa numero 1 nella memoria di Shawn Bradley (quello altissimo di Space Jam) inchiodandogli in testa una paurosa schiacciata.

Nonostante un super T-Mac, i Mavs vinsero tre partite di fila, portando la serie fino alla decisiva gara-7.
In quell’ultima partita, Tracy segnò 27 punti, ma le sue basse percentuali (10 su 26 al tiro, 1 su 7 da tre) contribuirono a condannare Houston ad una rovinosa sconfitta (40 punti di distacco, alla fine), l’ennesima al primo turno nella carriera di ‘The Big Sleep’.

McGrady non riusciva a scrollarsi di dosso l’etichetta di giocatore bravo, anzi straordinario, ma perdente.
In cinque stagioni da superstar assoluta della lega, non era mai riuscito a superare il primo turno di playoff, mentre altre stelle come Kobe o Tim Duncan avevano già fatto incetta di titoli e finali (anche se è bene sottolineare come Tracy non avesse mai avuto in squadra giocatori come Ginobili, Parker o Shaq).

McGrady con la maglia dei Rockets

McGrady con la maglia dei Rockets

A partire dalla stagione 2005/2006, però, T-Mac iniziò a fare i conti con un ostacolo ben diverso dalle accuse di ‘scarsa leadership’ mosse dai suoi detrattori.
Dopo poche partite, iniziarono i forti spasmi alla schiena che costrinsero TMC a diversi periodi di stop. Durante una sfida con i Denver Nuggets, addirittura, il numero 1 venne caricato su una barella e trasportato direttamente in ospedale.
A causa della prolungata assenza della loro stella, i Rockets non si qualificarono ai playoff.
I primi, gravi infortuni non impedirono comunque a McGrady di onorare l’All Star Game in scena a Houston, deliziando i suoi tifosi con una performance da 36 punti (miglior realizzatore di serata).

I problemi alla schiena non passavano, anzi, peggiorarono con l’arrivo della nuova stagione. Lo stesso McGrady dichiarò ai media di avvertire che il suo corpo stesse rallentando, non permettendogli più di essere il giocatore esplosivo di una volta.
Visto che si sa, i guai non vengono mai da soli, anche Yao si infortunò (quelle gambe enormi lo tormenteranno per tutta la carriera, costringendolo al prematuro ritiro nel 2011), così T-Mac dovette trascinare la squadra ai playoff quasi da solo.
Pressoché inutile scrivere come andò a finire: Rockets fuori al primo turno, eliminati stavolta dagli Utah Jazz di Deron Wiliams e Carlos Boozer.
Nella conferenza stampa che seguì la decisiva gara-7, TMC non riuscì a trattenere la frustrazione per l’ennesimo fallimento:

A peggiorare ulteriormente le cose, durante la stagione successiva arrivarono anche i problemi a gomito, caviglia, spalla e ginocchio.
Un T-Mac sempre più malridotto guidò comunque la squadra fino alla post-season, anche grazie ad un’incredibile striscia di 22 vittorie consecutive.
Ancora una volta, nonostante i 40 punti e i 10 rimbalzi di McGrady nella conclusiva gara-6, la stagione finì subito, sempre per mano dei Jazz.

La divisa 'retrò' di Houston

La divisa ‘retrò’ di Houston

Dopo la nuova batosta, la parabola tanto esaltante quanto sfortunata di ‘The Big Sleep’ iniziò la sua fase calante.
Durante l’estate il ginocchio e la spalla furono operati, ma al rientro in campo la situazione non sembrò migliorare, tanto che TMC dovette tornare sotto i ferri, saltando il resto della stagione.
I Rockets tornarono comunque ai playoff, dove il beffardo destino (oltre che le ottime prestazioni dei vari Yao, Luis Scola, Shane Battier e Ron Artest) fece sì che, proprio nell’unica occasione senza T-Mac, l’ostacolo del primo turno fu finalmente superato (Houston perse poi la serie successiva contro i Lakers, futuri campioni NBA).

Per cercare in qualche modo di dare una scossa ad una carriera ormai in stallo, Tracy decise di cambiare il numero di maglia, passando dal classico #1 al nuovo #3. A posteriori appare un evento piuttosto simbolico; il numero 1 non c’era più.
La maglia numero 3 dei Rockets, ad ogni modo, apparve soltanto per alcuni sprazzi di partita visto che, nel febbraio del 2010, un TMC ormai intrappolato nel corpo di un reduce di guerra (con tutto il rispetto possibile) fu ceduto ai New York Knicks.
Quella blu e arancio indossata nella Grande Mela fu la prima delle divise con cui l’astro di T-Mac percorse il viale del tramonto.
Il fisico, oltre che lo spirito, non riusciva più ad assistere il sette volte All-Star che, dopo un paio di dimenticabili mesi a Manhattan, trascorse due tristi stagioni tra Detroit ed Atlanta in cui sul parquet si vide soltanto l’ombra dello scintillante fuoriclasse che avrebbe dovuto dominare gli Anni 2000.

Tutte (o quasi) le maglie indossate in carriera da TMC

Tutte (o quasi) le maglie indossate in carriera da TMC

Dopo una parentesi cinese giustificata solo dagli svariati milioni di dollari entrati nelle sue tasche (il Quingdao arrivò addirittura ultimo in campionato), nell’aprile del 2013 il fantasma di Tracy McGrady tornò nella NBA, chiamato dai San Antonio Spurs in vista degli imminenti playoff.
Dopo una carriera segnata indelebilmente dalle continue eliminazioni al primo turno, con la squadra di Gregg Popovich Tracy arrivò fino alle NBA Finals, venendo però impiegato solamente quando le partite erano ormai decise (il cosiddetto garbage time).
Il miracoloso canestro di Ray Allen in gara-6 portò quel titolo a Miami, negandolo agli Spurs e togliendo a McGrady l’ultima speranza di mettersi al dito il tanto ambito anello. Forse però, per un fenomeno come TMC, vincere un titolo come ultimo dei panchinari sarebbe stato un finale ancora più amaro.

McGrady nella sua ultima apparizione in NBA con gli Spurs

McGrady nella sua ultima apparizione in NBA con gli Spurs

In un bellissimo articolo intitolato The Unfortunate Tale Of T-Mac, pubblicato su Grantland nell’estate del 2013 in seguito all’annuncio ufficiale del ritiro di ‘The Big Sleep’, il celebre giornalista Bill Simmons paragonò la carriera di McGrady a quella di grandi star hollywoodiane come Robert De Niro e John Travolta: un tempo i migliori sulla piazza, poi costretti ad accaparrarsi qualche piccola parte in film di scarso successo.

Sempre Simmons definì TMC “il giocatore sbagliato nell’era sbagliata”, attribuendo parte dei suoi mancati trionfi al periodo ‘di transizione’ della lega che aveva portato all’abbassamento del livello medio delle squadre.

In ogni caso, per un motivo o per l’altro, lo strabiliante realizzatore, difensore, passatore, schiacciatore, fenomeno partito da Bartow, Florida alla conquista delle stelle NBA non riuscì mai a salire in cima al mondo.
Quello che fece benissimo, però, fu regalare ai ragazzini, agli adolescenti e a tutti gli appassionati di basket di quel particolare ed effettivamente transitorio decennio un motivo in più per amare questo bellissimo sport, mettendo in campo uno spettacolo da lustrarsi gli occhi.
Al di là delle vittorie e delle sconfitte, come nella famosa campagna della Nike con protagonista LeBron James, possiamo dire con orgoglio “We have been all witnesses”, siamo stati tutti testimoni della splendida quanto sfortunata epopea del grande T-Mac.

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