C’è stato un tempo, peraltro non molto lontano, in cui mecenatismo di Sean Combs, alias Puff Daddy, P.Diddy o Diddy che dir si voglia, andava oltre i party, le flebo e l’olio Baby Johnson. C’è stato un tempo in cui il rapper recentemente salito alla ribalta di cupe cronache investiva il suo patrimonio nello sport che tende al cielo. E perdeva pure.
Step back, come si dice in gergo tecnico. Combs, alla fine del 1993, fonda la sua etichetta discografica, la Bad Boy Entertainment (nomen omen, verrebbe da dire), dopo essere stato accompagnato alla porta da un dirigente della Uptown records.
Il giro d’affari evidentemente è adeguato, verosimilmente anche grazie alla presenza, tra le sue fila, del poi prematuramente scomparso Notorius B.I.G. Com’è, come non è, Diddy decide che gli garba anche investire anche nel basket di strada, ed iscrive una sua squadra, i Bad Boys (e daje…), al Rucker Tournament.
Ora, il lettore appassionato di pallacanestro a stelle e strisce sicuramente saprà di cosa stiamo parlando. A costo di annoiare, tuttavia, vale la pena rinfrescare la memoria, anche a costo di annoiare qualcuno: si tratta del playground più rinomato al mondo, dove hanno giocato fior di campioni anche passati dalla NBA.
Tra questi, Joe Smith. Sì, perché grazie all’influenza che già all’epoca riesce evidentemente ad avere, nel 1995 Diddy regala ai suoi Bad Boys il prospetto in uscita da Maryland, che con i Terrapins aveva raggiunto per due anni di fila le Sweet Sixteen del Torneo NCAA, dopo un decennio di assenza.
Un nome comune, Joe Smith, per un giocatore fuori dall’ordinario. Alto 2.08 cm ma estremamente mobile per un giocatore delle sua levatura, se questo è un plus per gli scout di oggi, a maggior ragione lo era NBA di allora, più propensa alla ricerca di giocatori dalla stazza fisica rilevante. Il lettore tenga a mente questo particolare, tornerà fuori alla fine.
Accanto a Smith, nei Bad Boys evoluiscono il 2.03 Exree Hipp, sempre dei Terrapins e la guardia ex-St. John’s Boo Harvey. Insomma, in termini di valore, una vera e propria portaerei.
È verosimile che Diddy già sognasse la vittoria sul campo e la gloria imperitura prima ancora di giocare. Ma come tutti quelli che provano a vincere subito e facilmente, ha fatto i conti senza l’oste.
In quei giorni infatti una quantità inusitata di persone si susseguono a suonare al campanello di Kareem “The Best Kept Secret” Reid per informarlo che al Rucker Park quell’anno “una cosa è venuta a miracol mostrare”, come diceva il poeta. E chi non ricorre al citofono, ripiega sul telefono.

Reid, che allora è un play ventenne di 1.78 dallo spin move mortifero, prende nota. Anche lui ha una squadra al Rucker, la Sugar Hill Gang e, anche se non siamo certo dentro la sua testa, non sarebbe certo fantasioso ipotizzare che abbia intimamente pregustato una sfida con i Bad Boys.
Ma che Reid la immaginai o meno, la sfida comunque ha effettivamente luogo. Reid naturalmente non è da solo: accanto a lui trovano infatti posto Tyron “Black Widow” Evans, un due metri che si muove come una guardia (e scomparso una decina d’anni fa per le complicazioni di un diabete) e Art Long.
Il secondo nome magari dirà qualcosa di più agli appassionati. Si tratta, in effetti, di un’ala forte da Cincinnati con qualche presenza in NBA (Kings, Sonics, Sixers, Raptors) e in Europa (ASVEL, Banvit, Baskonia da straniero di coppa). Anche quella di Reid è, dunque, una squadra di tutto rispetto.
Già, il rispetto. Quello che Reid non ha degli avversari: non solo perché si è costruito una nomea da solido trash talker, ma soprattutto perché riduce la portaerei di Diddy in, fantozzianamente parlando, una corazzata Potëmkin, sciorinando una prestazione da 38 punti e 13 assist.
Ed anzi, la contesa la decide proprio lui, allo scadere e contro Joe Smith, e le cronache raccontano di un Diddy decisamente livido in volto. La storia potrebbe ora anche finire qui, ma le appendici sono altrettanto interessanti.
Intanto, Joe Smith: che fine fa? Un paio di settimane dopo essere stato brutalizzato da “The Best Kept Secret”, il commissioner David Stern lo chiama sul palco del Madison Square Garden.
L’occasione è ovviamente il draft NBA, la squadra sono i Golden State Warriors e posizione è… la numero 1. Sotto di lui diversi nomi conosciuti, ma uno in particolare, in quanto fonte di paralleli con lo stesso Smith (ricordate il discorso delle caratteristiche fisiche?), attira l’attenzione: dalla Farragut Academy di Chicago, al quinto posto i Minnesota Timberwolves selezionano infatti Kevin Garnett.
E Reid? Un po’ di Europa tra Francia e Turchia, un po’ di leghe minori statunitensi e gli Harlem Globetrotters nel 2001. Ed il Rucker Park, ovviamente, dove nel medesimo anno diventa il primo nella storia del torneo a guidare la graduatoria di punti e assist insieme.
Giocando per chi? Per Diddy, ça va sans dire.