Vi raccontiamo storie da Lakers, ovvero racconti di giocatori e partite storiche dei Los Angeles Lakers, la squadra più forte di sempre
L’arte della vittoria: come Pat Riley ha cambiato per sempre la NBA
Scritto in collaborazione con Alessandro Robustelli (Fuori dal Gioco).
Quale appassionato di NBA non conosce l’iconica figura di Pat Riley.
Nella sua gloriosa carriera, il nativo di Roma, ha sicuramente lasciato il segno più da allenatore e poi dirigente che da giocatore, nonostante comunque abbia conquistato un anello sul parquet.
La carriera d’allenatore di Pat Riley inizia quasi per caso. Dopo aver lasciato i Lakers, Riley decise di iniziare una carriera da speaker radiofonico nel 1976 per poter rimanere comunque nell’ambiente cestistico.
Qualche stagione dopo, 1979-1980, la panchina dei Lakers era guidata da Jack McKinney, il quale dopo un gravissimo incidente in bicicletta fu costretto a lasciare la panchina al suo assistant coach Paul WestHead.
Il nuovo head coach decise di promuovere Riley come assistant coach, regalando all’ex Lakers la sua prima esperienza in panchina.
All’epoca nei Los Angeles Lakers tutti gli occhi erano per Magic Johnson. Proprio il play nella stagione successiva indusse una conferenza stampa per segnalare il malumore dello spogliatoio nei confronti di WestHead. Per l’head coach avere Magic contro significò esonero immediato.
A Paul WestHead subentrò Pat Riley (in realtà all’inizio la panchina doveva essere affidata a Jerry West, ma The logo rifiutò).
Il rifiuto di Jerry West probabilmente fu decisivo per creare l’epoca gialloviola. Riley guidò i Lakers a 4 Finali NBA consecutive. Vinse il titolo nel 1982 e 1985 contro 76ers e Celtics.
Dopo un anno di stop, grazie anche al fenomenale roster a disposizione, Riley dominò la stagione 1986-1987 portandosi a casa il terzo titolo da allenatore.
In un’iconica intervista promise il re-peat ai suoi tifosi e riuscì a battere alle Finals del 1988 anche i Pistons. Per gli anelli in gialloviola come coach segnate quattro.
La sua pazza carriera come head coach continuò prima sulla panchina dei Knicks, dove incontrò molto spesso i Bulls di Jordan sul suo cammino e poi a Miami.
A Miami Riley compie un’altra grandissima impresa. Nel 2006 subentrò a Van Gundy come nuovo head coach degli Heat lasciando il suo ruolo dirigenziale all’interno della squadra. Recuperò fisicamente sia Shaquille O’Neal che Wade e portò clamorosamente gli Heat in finale NBA contro i Dallas di Dirk. I Mavs passarono in vantaggio per 2-0 nella serie ma furono clamorosamente rimontati e sconfitti a gara 6. Riley e gli Heat furono la seconda squadra in 25 anni a recuperare uno svantaggio di due partite in una serie finale.
Miami vinse così il suo primo anello della storia.
L’impero di Pat Riley: numeri, successi e un’eredità inestimabile
Se la grandezza di un uomo potesse essere misurata dai numeri, Pat Riley sarebbe senza dubbio una delle figure più dominanti della storia dello sport. La sua carriera è un monumento al successo, costruito con una dedizione quasi ossessiva e una mentalità implacabile. Ogni squadra che ha toccato, ogni giocatore che ha allenato o gestito, è stato plasmato dal suo spirito vincente. E i numeri non mentono. Sono ben 9 i titoli NBA vinti: 5 da allenatore, 2 da dirigente, uno da assistente e persino uno da giocatore, conquistato nel 1972 con i Los Angeles Lakers. Ma i titoli sono solo una parte della storia. La vera eredità di Riley è il modo in cui ha costruito dinastie, creato sistemi e imposto standard così alti da diventare il punto di riferimento per intere generazioni.
Da allenatore, Riley ha registrato 1210 vittorie in regular season, posizionandosi all’ottavo posto nella storia della NBA per numero di successi. Ma il dato più impressionante è la sua percentuale di vittorie in carriera: 63,6% in 19 stagioni da head coach. Nei playoff? Ancora meglio. Con 171 vittorie nella postseason, Riley è il terzo allenatore più vincente nella storia dei playoff NBA, dietro solo a Gregg Popovich e Phil Jackson. Ma la statistica più impressionante è un’altra: ha portato le sue squadre ai playoff in 18 stagioni su 19. Questo significa che, indipendentemente dal roster a disposizione, dalla situazione della franchigia o dalle sfide incontrate lungo il cammino, Riley ha sempre trovato un modo per vincere. Nessun alibi, nessuna giustificazione. Solo risultati.
Ma il suo impatto non si limita al parquet. Riley è stato un vero e proprio stratega anche del mercato, capace di costruire squadre competitive attraverso mosse audaci e calcolate. Nel 1995, quando lasciò i Knicks per diventare presidente e allenatore dei Miami Heat, prese in mano una franchigia priva di identità e la trasformò in una delle più rispettate della NBA. La sua prima mossa? Firmare Alonzo Mourning e Tim Hardaway, creando una squadra solida e competitiva già alla fine degli anni ‘90. In quegli anni, gli Heat divennero una potenza a Est, registrando 4 stagioni consecutive con almeno 50 vittorie e raggiungendo le Eastern Conference Finals nel 1997. Ma Riley non si è comunque accontentato (ce lo aspettavamo? Sì). Sapeva che per costruire qualcosa di leggendario serviva qualcosa in più. Così, nel 2003, ha selezionato Dwyane Wade al Draft, gettando le basi per il futuro della franchigia. Solo 3 anni dopo, nel 2006, Miami ha vinto il suo primo titolo con Riley tornato in panchina, per guidare Wade e Shaquille O’Neal alla gloria.
E poi, nel 2010, il colpo da maestro. Quando LeBron James annunciò la sua “decision” e scelse Miami come sua destinazione, il mondo della NBA capì che Riley aveva fatto di nuovo la sua magia. Il reclutamento della superstar di Cleveland, insieme a Chris Bosh per affiancare Wade, non è stato solo un colpo di mercato, ma la conferma che Riley sapeva muoversi come nessun altro nel panorama NBA. Nei quattro anni successivi, gli Heat dominarono la lega, raggiungendo 4 finali consecutive (2011-2014) e vincendo 2 titoli NBA (2012, 2013). In quel periodo, Miami ha registrato un’impressionante striscia di 27 vittorie consecutive nel 2013, la seconda più lunga della storia NBA, un chiaro segno della mentalità implacabile imposta dal Padrino.
Le regole del Padrino: la filosofia e le citazioni più iconiche di Pat Riley
Pat Riley non è stato solo un allenatore vincente o un dirigente visionario. È stato, ed è tuttora, un architetto della mentalità vincente, un uomo capace di trasformare semplici squadre in dinastie, e talenti individuali in macchine da guerra. Se c’è una cosa che lo ha sempre contraddistinto, è la sua incrollabile fede nei principi del successo: lavoro, disciplina, impegno e una feroce dedizione all’eccellenza. The NBA Godfather non ha mai lasciato nulla al caso, perché nella sua visione dello sport (e della vita) il destino appartiene a chi è disposto a sacrificare tutto per arrivare in cima.
La sua filosofia si riassume in una serie di massime, quasi dei comandamenti, per chiunque voglia vincere ad alti livelli. “Great effort springs naturally from great attitude”, regna sicuramente su tutte: il grande sforzo nasce naturalmente da un grande atteggiamento. Per Riley, l’impegno non è negoziabile, ma è una diretta conseguenza della mentalità con cui si affronta ogni singolo giorno. Non basta il talento, né le vittorie del passato: solo chi si presenta in palestra ogni mattina con la voglia di migliorarsi può davvero definirsi un campione. E, se c’è un concetto che il coach ha sempre ripetuto ossessivamente, è che l’eccellenza non è un obiettivo ma un processo: “Excellence is the gradual result of always striving to do better.”
Un altro punto chiave della sua mentalità è la totale dedizione alla causa. Riley non ha mai tollerato compromessi: o sei dentro, o sei fuori. Lo ha detto chiaramente, e più di una volta: “There are only two options regarding commitment. You’re either in or you’re out. There’s no such thing as life in-between.” Questa mentalità ha sempre caratterizzato le sue squadre, plasmando giocatori capaci di accettare il sacrificio come parte integrante del percorso. Nei suoi team non c’è spazio per chi cerca scuse o per chi si accontenta: il successo arriva solo a chi è disposto a lottare ogni giorno come se fossero le Finals.
Ed è forse per questo che Riley è stato capace di ispirare generazioni di giocatori. Da Magic Johnson a Dwyane Wade, da Patrick Ewing a LeBron James, chiunque abbia avuto a che fare con lui ne è uscito trasformato. Non solo come giocatore, ma come uomo. Perché la vera grandezza, nella visione di Riley, non è nei titoli vinti o nei punti segnati, ma nella mentalità con cui affronti ogni sfida.
Gli outfit del Padrino
Il punto di connessione con la moda per Pat Riley è Giorgio Armani.
Nel 1982 Riley vincerà il suo primo titolo da coach, mentre Giorgio Armani compare sulla copertina del TIME esattamente 25 anni dopo Christian Dior. I due entrano in contatto proprio all’inizio degli anni 80’ instaurando un rapporto d’amicizia molto forte. Difficile da poter dire quanto le origini italiane del “Padrino” possano aver influito sulla collaborazione tra i due.
Grazie agli abiti indossati da Pat Riley i tifosi americani iniziarono a denominarlo “The Godfather”. Look da gangster buono che nell’immaginario collettivo americano richiamava l’Italia e il film del Padrino. Pat Riley in panchina indossava sempre abito elegante, capelli gelatinati all’indietro e ghigno sempre pronto.
L’head coach dei Lakers divenne così un vero e proprio testimonial degli abiti creati da Armani. In America nacque la leggenda che ogni vestito indossato da Riley in panchina aveva un valore di 125mila dollari.
Per non farsi mancare niente ad ogni abito un bel paio di vecchie Bally abbinate.
Se pensate che in America negli anni 80’ e 90’ giocatori ed allenatori giravano con pantaloni larghi e magliette dai colori variopinti, vedere il principale volto dei Lakers con la giacca suscitava uno stupore non indifferente.
Il “Pat Riley effect”: costruire una dinastia con regole ferree
Ovunque sia andato, Pat Riley ha lasciato un segno indelebile. Ciò che ha fatto con i Los Angeles Lakers, i New York Knicks e soprattutto con i Miami Heat non è solo una storia di vittorie, ma di identità e cultura.
Tutto è iniziato negli anni ‘80, quando ha preso in mano i Lakers di Magic Johnson e Kareem Abdul-Jabbar, trasformandoli in una macchina perfetta. Lo “showtime” non era solo spettacolo, ma una perfetta sintesi tra disciplina e creatività, tra libertà e rigore tattico. Sotto la sua guida, i Lakers non solo vincevano, ma dominavano con un basket veloce ed elegante, ridefinendo l’estetica della NBA. Ma Riley non era solo il regista di quel gioco scintillante: dietro il glamour c’era una ferrea gestione delle personalità, un rispetto assoluto delle gerarchie e una mentalità da predatore. Non si accontentava mai. Anche dopo una vittoria, sapeva che il più grande nemico del successo è proprio il successo stesso.
Quando lasciò Los Angeles e si trasferì a New York, il suo stile cambiò radicalmente. I Knicks non avevano il talento dei Lakers, ma Riley costruì una squadra a sua immagine e somiglianza: dura, aggressiva, spietata. Con Patrick Ewing come centro nevralgico, i Knicks divennero una delle squadre più fisiche della storia NBA, un gruppo di guerrieri che compensavano con la difesa e l’intensità ciò che mancava in talento puro. Anche se non vinsero mai un titolo sotto la sua guida, Riley aveva fatto qualcosa di ancora più significativo: aveva cambiato la cultura della franchigia, trasformandola in una squadra temuta e rispettata.
E, infine, il suo capolavoro assoluto: Miami, dove ha creato un vero e proprio impero. Qui non si è limitato ad allenare. ha costruito le fondamenta di quella che oggi chiamiamo “Heat Culture”, una filosofia basata su lavoro, sacrificio e dedizione totale. Nessuna squadra è mai stata costruita in modo così selettivo: chiunque entrasse a far parte degli Heat doveva essere pronto a mettersi in gioco fino all’ultimo respiro. Nessun compromesso, nessuna scorciatoia. Riley ha imposto una disciplina quasi militare, rendendo il sacrificio e la resilienza il marchio di fabbrica della franchigia.
Ancora oggi, i Miami Heat sono sinonimo di cultura vincente, di etica del lavoro e di una mentalità che non accetta compromessi. Nel 2020, con una squadra guidata da Jimmy Butler e Bam Adebayo, Miami è tornata alle Finals, dimostrando che il modello Riley funziona ancora. Nel 2023, gli Heat hanno raggiunto ancora una volta le finali NBA, partendo dall’ottavo posto a Est, un’impresa che poche squadre nella storia sono riuscite a compiere.
Ed è questo il lascito di Riley. Un’eredità fatta di numeri impressionanti, titoli e vittorie, certo. Ma soprattutto di una filosofia che ha cambiato per sempre il modo in cui il basket viene giocato e vissuto. Perché il vero segno del “Pat Riley effect” non è solo una squadra che vince, ma una squadra che incarna la sua filosofia. Anno dopo anno, generazione dopo generazione.