NBA Passion Awards 2016/17

di Stefano Belli
NBA Passion

Most Valuable Player Of The Year: Russell Westbrook (Oklahoma City Thunder)

Russell Westbrook, protagonista di una stagione 2016/17 a dir poco leggendaria

Russell Westbrook, protagonista di una stagione 2016/17 a dir poco leggendaria

Last but not least, la scelta più gravosa. Mentre l’anno scorso Stephen Curry aveva già vinto, di fatto, a novembre, in questa stagione la caccia all’MVP è stata più agguerrita che mai. Considerando giocatori del calibro dello stesso Curry, di Kevin Durant e di Isaiah Thomas un passo indietro in questa corsa, per quanto assurdo possa sembrare, ci sono almeno quattro candidati più che credibili, tutti con validissimi motivi per portarsi a casa la statuetta di Most Valuable Player.

Cominciamo da Kawhi Leonard. Se ne facciamo un discorso di completezza sui due lati del campo, il numero 2 di San Antonio sarebbe tranquillamente l’MVP delle prossime dieci stagioni. Sulle sue abilità difensive sono già stati spesi fiumi di parole e sono già state consumate tastiere su tastiere. Ciò che più ‘preoccupa’ è l’inarrestabile crescita offensiva del ‘leader silenzioso’ degli Spurs, che ormai viene trattato da compagni e avversari alla stregua del miglior Kobe Bryant; quando si deve decidere un partita, palla a Kawhi e, dall’altra parte, raddoppio su Kawhi. Se non fossero state compiute le imbarazzanti imprese di Steph Curry prima e quelle degli atleti di cui tratteremo più avanti poi, Leonard avrebbe già in bacheca almeno una statuetta (quella del 2016) e starebbe contando i giorni (sì, figuriamoci…) che mancano all’assegnazione della prossima. Questo significa soltanto una cosa: non appena gli ‘alieni’ concederanno un attimo di tregua al pianeta NBA, il vincitore annunciato sarà uno e uno soltanto.

Già, perché questa è una lega in cui giocano anche gli extraterrestri. Ce n’è uno, in particolare, che si è impadronito della baracca nel lontano 2003, e che sembra ben lungi dal mollare il suo trono. Non a caso lo chiamano King James, anche se per l’anagrafe è LeBron Raymone James. Gettiamo subito la maschera: io stesso, nei consueti pronostici di inizio stagione, avevo dato per certo un utilizzo con il contagocce della leggenda vivente, che avrebbe utilizzato la regular season come una sorta di ‘aperitivo’ prima della solita abbuffata di prodezze ai playoff. Probabilmente anche lo staff dei Cleveland Cavaliers era partito con la stessa idea. E invece…
Invece LBJ ha indossato la maglia numero 23 ogni sera con la stessa, inaudita cattiveria, come se volesse dimostrare a tutte le arene d’America che di Re ce n’è uno solo. Il fatto che la maggior parte delle sue statistiche siano al massimo da quando è tornato a Cleveland, nel 2014, è un indicatore quasi irrilevante del controllo totale esercitato dal quattro volte MVP sulla SUA franchigia. Il che non è sempre una cosa buona; la sua attitudine a fare le veci sia dell’allenatore che della dirigenza, alla lunga, potrebbe rivelarsi deleteria. Dall’altra parte, però, c’è il LeBron giocatore, che ormai ha preso definitivamente la sembianze di Magic Johnson nel corpo di Karl Malone. Mai come quest’anno, infatti, il Prescelto si era calato nei panni dell’ispiratore per i compagni. Vedere per credere la stagione che ha letteralmente ‘regalato’ a giocatori come Channing Frye, Richard Jefferson, Kyle Korver e lo stesso Kevin Love. Senza il loro leader, i Cavs appaiono quasi ‘sperduti’, come se non si trattasse della squadra campione in carica. Ecco, anche in questa regular season James ha spiegato a tutti il significato dell’espressione “fare la differenza”.

A proposito di “fare la differenza”; avete visto la corazzata che, da ottobre ad aprile, ha navigato in solitario al terzo posto della Western Conference, impallinando retine sera dopo sera? E’ la stessa che, lo scorso anno, usciva mestamente da un primo turno di playoff raggiunto solo per un favorevole allineamento dei pianeti. La stupefacente trasformazione degli Houston Rockets in una contender non può che avere due uomini-copertina. Il primo è Mike D’Antoni, che in Texas ha trovato la stagione del riscatto dopo anni bui; il secondo è James Harden, protagonista di un 2016/17 a dir poco mostruoso.

Per rispondere a quanti vedevano con diffidenza la scelta di D’Antoni di spostarlo ufficialmente nella posizione di playmaker (ruolo che, di fatto, ricopriva anche prima), il ‘Barba’ ha chiuso il primo incontro stagionale con 34 punti e 17 assist, facendo intuire quello a cui avremmo assistito nei mesi successivi. Da lì in avanti sono arrivate 22 triple-doppie (roba da far impallidire QUASI tutti negli ultimi vent’anni), di cui una da 53 punti, 17 assist e 16 rimbalzi (sì, avete letto bene…) il 31 dicembre e un’altra da 51-13-13 il 27 gennaio. Giocatore del mese per la Western Conference a dicembre, dalle sue mani fatate è passata la totalità di quanto accaduto in ogni singola partita dei Rockets. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, basti pensare che ha fatto sembrare degli All-Star gente come Nenè, Clint Capela e Montrezl Harrell… Che dite, basta per l’MVP? Forse si, però…

Però ci sono cose che fanno sparire tutto il resto, o quantomeno lo mettono in secondo piano. Quando (e se) un giorno avremo dei nipotini, racconteremo loro ciò a cui abbiamo assistito (o creduto di assistere; non può essere tutto reale…) quest’anno. Nella stagione di grazia 2016/17, Russell Westbrook ha preso tra le mani il Grande Libro Di Storia Del Basket e lo ha stracciato furiosamente.
Ogni record è fatto per essere battuto, dicono. Ce ne sono alcuni, però, che sembrano figli di altre epoche, di periodi storici che non torneranno mai più, perciò imbattibili. Le 41 triple-doppie e, soprattutto, la tripla-doppia di media di Oscar Robertson avevano lo stesso valore dei 100 punti di Wilt Chamberlain, peraltro fatti registrare nella medesima stagione (1961/62). In attesa che qualcuno vada a disturbare ‘The Big Dipper’, Westbrook si è seduto allo stesso, elitario tavolo di ‘The Big O’.

Quantomeno curiose le critiche secondo cui il numero 0 abbia “giocato solo per questo record”. Innanzitutto, provate anche solo a immaginare di porvi un simile obiettivo, e infine di raggiungerlo… ma scherziamo?? Poi sarebbe opportuno notare come, impegnato com’era ad inseguire questo ‘inutile’ traguardo, abbia trovato il tempo per trascinare ai playoff una squadra che, senza di lui, starebbe già facendo le ‘macumbe’ del caso in vista della draft lottery. In questo senso, è davvero abissale il divario tecnico tra Russ e i suoi compagni. Che media assist avrebbe avuto, per esempio, con di fianco i tiratori dei Rockets? Quando le tue migliori alternative in attacco si chiamano Victor Oladipo, Steven Adams ed Enes Kanter (con il dovuto rispetto, non certo Kyrie Irving o LaMarcus Aldridge), è naturale che la tua squadra non possa ambire a chissà quali traguardi. In attesa di ritrovarsi in un contesto degno di un MVP, l’ex UCLA ha trasformato questa stagione 2016/17 in una missione personale e, incredibilmente, l’ha compiuta.

Volendo poi fare ulteriormente i sottili, c’è un numero interessante da analizzare: 0.786. E’ la percentuale di vittorie dei Thunder nelle 42 partite chiuse in tripla-doppia da Westbrook. Per intenderci, l’unica squadra NBA con un record superiore, seppur su 82 incontri, sono i Golden State Warriors. Questo dato conferma (se davvero ce ne fosse bisogno) che non parliamo solamente di un animale (nel vero senso del termine) da statistiche, ma soprattutto di un giocatore decisivo. Chiedete pure a Danilo Gallinari e ai suoi Denver Nuggets, il cui sogno playoff è stato matematicamente infranto quando la furia del numero 0 si è abbattuta su di loro. 50 punti, 16 rimbalzi, 10 assist, tripla della vittoria e record di Robertson sbriciolato. Coraggio, diamogli questo dannato MVP!

 

All-NBA Team:

  • Russell Westbrook (Oklahoma City Thunder)
  • James Harden (Houston Rockets)
  • Kawhi Leonard (San Antonio Spurs)
  • LeBron James (Cleveland Cavaliers)
  • Nikola Jokic (Denver Nuggets)

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