CAPITOLO 5 NBA Finals : The Black Strength
Prologo e Capitolo 1: La Forza Dei Guerrieri
Capitolo 2: The Yellow Storm
Capitolo 3: Il Porto Dello Spettacolo
Capitolo 4: The Grounded Boat
I saltimbanchi stanno già preparando l’esibizione in città, il clima delle NBA Finals è di quelli che ti fanno venire voglia di prepararti con lo spumante anche in caso di astemia perseveranza nel non voler festeggiare prima di aver raggiunto il traguardo. Ad Oakland in pochi gridano al “Wait”, mentre in tanto hanno già comprato le magliette celebrative. E tra quei tanti v’è anche l’organizzazione dei Warriors. Gli americani non hanno remore, in nulla, nemmeno nel prepararsi a dei festeggiamenti che (potrebbero) essere rinviati. Si godono il potenziale momento già prima, senza pensare ai possibili sfottò. E’ un pregio molto anglosassone, ma in un Paese che ha la forma di uno stivale dicono che è meglio far la figura del modesto che del fesso. Le voci sono delle più inverosimili. Si parla di uno spogliatoio dei Warriors già pronto a ballare, con t-shirt celebrative già indosso. Si parla di troppe distrazioni, di giornalisti che ridono e scherzano con Curry & Co., si parla di una vittoria già scritta. In effetti gli ingredienti per il piatto californiano giusto ci sono tutti. In casa, travolti da una marea gialla a bordo campo, la squadra più forte di tutti. Sembra fatta. Ma dall’altra parte della trincea c’è chi non digerisce nè la sconfitta, nè la California. Non è Love, che in California c’è cresciuto, non è Lue che in California ha vinto tutto da giocatore: è LeBron, che nella West Coast ci è sempre solo passato per giocare.
Il match non è contornato solo da preamboli di festeggiamenti, ma anche da grandi polemiche. Draymond Green, dopo il tecnico preso per il “colloquio” con LbJ di Gara 4 è stato sospeso per la sfida delle NBA Finals. Somma di flagrant. Inevitabile, quanto un servizio perfetto per le polemiche. In tanti si schierano dalla sua parte, dicendo che una Finals non si può privare di un giocatore così per un semplice battibecco. Dopo il calcio a Steven Adams contro i Thunder, altri, ci vedono un contentino, per far contenti i forcaioli, quando ormai la frittata era stata fatta (non squalificandolo contro la squadra di Oklahoma City). L’applicazione del regolamento è corretta, ma la vicenda, vista la sua importanza, ha fatto incetta di punti di vista che neanche Pacers vs Pistons (se non sapete di cosa stiamo parlando, dopo esservi vergognati un po’, cercate su internet, magari aggiungendoci la parola “fight”). Il campo parlerà, alla fine, per tutti. Già, il campo, tralasciato, forse troppo, per il vociferio da corridoio, anzi, da tunnel all’ingresso del parquet. La partita inizia, quasi come se non ce ne fosse bisogno. 9 a 3 per i Warriors dopo neanche 4 minuti, ed il tappo spumantino, in qualche magione californiana, è stato appena strofinato per bene. Stapparlo se è umido è più complicato. 5 – 12 dopo altri due minuti, sfregamento di dita in stile preparatorio con annesso riscaldamento del pollice destro (sì, ditelo pure in stile fantozziano). Il tappo però ancora non può partire, v’è una forza contraria superiore, e si chiama Cavs. Il primo a comporre la suddetta è uno che di alcol e spumanti se ne intende parecchio: stiamo parlando di J.R. Smith, che trova un 2+1 che neanche Irving. Il secondo è LeBron che risponde con l’arma costruita e forgiata dalla banda di Kerr, l’isolamento da tre. L’orgoglio non basta a non essere gli sparring partner del campione, e lo sanno. Dopo la rimonta arrivata come un dritto improvviso, ecco la reazione. Triple, rimbalzi, un mare giallo sugli spalti, ed ecco che la nave di Tyronn Lue rischia di nuovo l’incagliamento. E che problema c’è se hai J.R.? Sembra una battuta visto il suo apporto a queste (e le scorse) Finals, ma finalmente, il fenomeno del New Jersey sta dimostrando quanto vale in una gara di cotanta importanza. 22 a 22, ed è suo il merito. Di là, però, sono in tanti, e lo sanno. Strength in Numbers. Ed ecco Leandro Barbosa e Shaun Livingston. Tripla e 2+1 allo scadere del primo quarto.
Il pubblico urla, gli allenatori gridano. E’ una bolgia in stile calcio sudamericano. Eppure in tutto questo baccano i Cavs ci sentono benissimo. Si sentono benissimo. E’ una comunicazione non verbale che rieccheggia più di qualsiasi tifoso imbirrato ed assetato di vittoria in queste NBA Finals. E’ l’intesa in campo. Agli espertoni forse non piacerà, ma come i Cavs riescono a trovare lo spazio giusto per l’attacco a canestro, il pick & roll corretto da fare, è, quasi, da manuale del basket, se il tuo obiettivo è quello di far rendere al meglio i tuoi campioni, soprattutto se capaci di attaccare il canestro in quel modo. C’è J.R., c’è Love, ed arriva anche Kyrie Irving, con un palleggio-arresto-tiro da 3 che avrà fatto di sicuro piacere a Dan Peterson. I Cavs tornano sopra. E tornano anche le distrazioni. Una concede un contropiede facile facile a Curry. Eppure, con LeBron in campo, agli avversari il “facile” non è concesso, nemmeno in un contropiede del genere
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Il block è uno dei tanti di queste Finals, e, scusate lo spoiler, non sarà l’ultimo. Curry non la prende bene e va a dire qualcosa a LeBron. Il King non reagisce, è troppo concentrato. Sa che questa potrebbe essere l’ultima gara delle Finals 2016 e non vuole concedersi nemmeno il capriccio di rispondere. Curry sembra un po’ intimorito, forse non da James, sicuramente dalla pesante leggerezza di essere considerato da tutti il migliore al momento. E allora? Palla a Livingston, schiacciata di quelle da far vedere ai nipoti su Jefferson e partità di nuovo in parità. A point guard (che poi, definire PG Livingston…) risponde point guard, step back di fabbrica Irving (due di fila) ed il secondo vale il 42 a 42. I Cavs ritornano sopra, e svegliano un drago: Klay Thompson, più che dormiente sino all’ennesimo stepback del 2 dell’Ohio, decide di dare un contributo offensivo alla squadra.
Il tiro “from downtown” è un suo must, ma addirittura due dal logo nell’arco di due possessi è davvero cosa esagerata. La partita è punto a punto, la più entusiasmante di tutte le Finals. LbJ inizia a darsi da fare anche davanti, risponde Curry, dopo aver lasciato per un attimo lo scettro di “crazy shooter” a Thompson, da 3. A LeBron non gli si può lasciare nemmeno un centimetro. Chiedere alla difesa dei Warriors, o a qualsiasi degli spettatori presenti a bordo campo della Oracle Arena per vedere le NBA Finals.
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Il terzo quarto inizia praticamente in parità. Una partita spettacolare, e lo show deve ancora iniziare, ed è targato dai più forti. Parte Irving (2+1), risponde Curry con un tiro la cui somma vale quanto quelli fatti da Kyrie. LeBron non ha più il tiro di una volta? Questione di concentrazione, questione di quanto è nel match. E di questo Game 5 lui è l’essenza. +3 targato dal Re. E +3 altrettanto mantenuto.
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Il ceffone questa volta se lo prende Iguodala, ma lo sentono un po’ tutti i Warriors. Ancora LeBron su assist di Love, poi Irving da 3, +8 Cavs. Mai in questa partita dopo i primi 3 minuti vi è stato un vantaggio tale. LeBron guida i suoi, punti e assist, assist e punti. Iguodala prova ad accorciare con una tripla che fa capire quanto un giocatore del suo calibro sia fondamentale in partite del genere (Ps. Non a caso possibile back to back MVP delle Finals). LeBron rispedisce la lettera da tre punti con mittente e raccomandata. 89 a 80 e questi Cavs hanno già l’odore del lago Erie addosso: è li che vogliono tornare tra qualche giorno. Irving domina ad inizio quarto quarto, e non c’è tripla di Curry che tenga, nè tantomeno un Klay Thompson difensivamente straordinario. E’ letteralmente infermabile: punti su punti, giocate su giocate, step back su… Vabbè lo avete capito. Sembra quasi voglia eguagliare il suo compare LeBron. 109 a 96 a quattro minuti dalla fine, non v’è partita. I Warriors non hanno più nulla da dire in merito. E la partita va ai Cavs. 112 a 97. Doveva essere la giornata della festa, la giornata della marea gialla che si infrangeva definitivamente su quella nave incagliata che Lue sembrava non essere più in grado di rimettere in viaggio, ed invece è stata la giornata del riassetto incredibile ed inaspettato di Cleveland: da un Love inspiegabilmente efficace sull’aspetto difensivo (il +18 di +/- parla molto più dei sui 2 punti), ad un JR Smith di un livello estremo (anche se solo nel primo tempo), sino ad un Tristan Thompson da 15 rimbalzi e, complice anche l’assenza per squalifica di Green e per infortunio dopo il primo quarto di Bogut, dominatore incontrastato del paint. E poi? E poi quei due. Definirli parafrasondoli od epitetandoli sarebbe difficile ed alquanto inefficace al confronto del semplice utilizzo dei loro nomi: LeBron James e Kyrie Irving. 82 punti in due, 41 per uno. Percentuali più alte per il playmaker, completezza di partita a favore di James in questa sfida delle NBA Finals (41-7-16, con 2 stoppate e 3 steals a fare da contorno). Già, lui, il King. Favoloso, strepitoso, inebriante quanto una cassa di Rum. Dicono che prima di questa partita si sia fatto ispirare dal Padrino (soprattutto dalla Parte seconda), dicono che abbia voluto quelle maglie a maniche corte color nero per replicare quell’atmosfera, quella carica, quell’unità di intenti a prescindere dai mezzi che attornia tutta la trilogia targata Francis Ford Coppola. 3-2, serie riaperta, quasi a sorpresa, quasi come se non potesse essere possibile, in pieno stile colpo all’italiana. Ora la nave è di nuovo salpata. Vede l’orizzonte, non più scogli, ma sa benissimo che la terraferma è ancora lontana, e che affondare in un mare in tempesta è veramente un attimo. Il prossimo porto vicino è più freddo, meno giallo e soprattutto più ospitale: la Quicken Loans Arena riaccenderà i fari sul proprio parquet, con l’entusiasmo di chi era pronto a rimettere luci e decorazioni nello sgabuzzino, aspettando di riutilizzarlo la sta prossima stagione altre meno sentiterrime partite