Nel cuore dell’America sportiva, c’è stato un tempo in cui la maglia di una squadra universitaria rappresentava molto più di una fase di passaggio verso la carriera professionistica.
Era simbolo di appartenenza, di formazione, di crescita condivisa. Per decenni, la NCAA ha custodito con gelosa convinzione l’ideale di dilettantismo, sostenendo che lo sport praticato dagli studenti dovesse restare immune al denaro. Che dovesse restare puro, educativo.
Eppure, proprio mentre questi giovani atleti attiravano folle oceaniche, incassavano diritti televisivi multimilionari e vendevano merchandise con il loro numero stampato sul retro, erano costretti a vivere con le borse di studio come unico compenso. Questa contraddizione, a lungo ignorata, ha cominciato a sgretolarsi già nel 2009, quando l’ex giocatore di basket di UCLA Ed O’Bannon portò in tribunale la NCAA, sostenendo che l’organizzazione stesse illegalmente traendo profitto dall’uso del suo nome e della sua immagine.
Fu un primo, timido passo. Ma aprì una breccia.
Il giudice Wilken (la stessa che oggi ha approvato l’House settlement) allora si schierò con O’Bannon, dando inizio a una serie di sentenze e ricorsi che avrebbero lentamente eroso il fondamento ideologico della NCAA. A quella causa fece seguito il caso Alston, che nel 2021 sancì, con un pronunciamento della Corte Suprema, il diritto per gli studenti-atleti di ricevere benefici educativi in aggiunta alla borsa di studio. L’unanimità della decisione (9-0) suonò come una condanna: la NCAA non era più intoccabile. Era solo una delle tante entità che, pur proclamando valori, operava dentro un’economia fondata sul profitto.
E da quel momento il processo di “liberalizzazione” si è accelerato con una forza travolgente, portando all’apertura del mercato NIL (Name, Image and Likeness) e, infine, alla possibilità appena sancita che le scuole paghino direttamente i propri atleti.
Un cambiamento epocale, ma non privo di ombre. Perché dietro il linguaggio della giustizia, si cela un disegno che potrebbe disgregare più di quanto prometta di ricostruire.
Tra vittorie legali e perdite invisibili: chi vince davvero in questo nuovo sistema?
L’accordo approvato dal tribunale federale promette equità, ma distribuisce i suoi benefici in modo radicalmente asimmetrico. Le università potranno versare fino a 20.5 milioni di dollari all’anno ai propri atleti, mentre un fondo da 2.7 miliardi verrà distribuito nell’arco di dieci anni a migliaia di ex giocatori in passato esclusi da questi compensi.
È facile leggere nei numeri la narrazione di un riscatto. Ma non è difficile nemmeno scorgere, appena sotto la superficie, una nuova gerarchia che si va cristallizzando.
Le stelle del football e del basket, già oggi contese dalle università come se fossero asset finanziari, diventeranno il fulcro di investimenti sempre più aggressivi. Le squadre delle power conference (Big Ten, SEC, ACC, Big 12) riceveranno i riflettori, gli sponsor, le copertine. Gli altri (i walk-on, gli atleti delle discipline minori, le università di seconda fascia) resteranno ai margini. Alcuni verranno tagliati. Non per mancanza di merito, ma perché non rientrano nei nuovi limiti imposti ai roster.
La sentenza di Wilken ha tentato di salvaguardare questi atleti con un compromesso che permetta il loro reintegro. Ma è chiaro che qualcosa si è rotto: lo sport universitario, per molti, non sarà più una porta d’accesso alla formazione, ma una selezione darwiniana in cui la redditività diventa il criterio d’ammissione.
Questa trasformazione silenziosa rischia di compromettere anche l’equilibrio del panorama olimpico, visto che numerosi sport cosiddetti “non monetizzabili” (come la ginnastica, la lotta, il nuoto) già faticano a trovare spazio nei bilanci delle università. Eppure sono proprio queste discipline, coltivate nei college, che formano la spina dorsale della delegazione statunitense ai Giochi.
La nuova distribuzione delle risorse potrebbe erodere anche questa eccellenza, portando a una polarizzazione in cui l’atletica universitaria smette di essere plurale, per diventare uno show business centrato su due sole discipline: football e basket. È un passaggio che avviene in silenzio, senza crisi apparenti, ma con una forza trasformativa che ridefinisce cosa significa “sport” in ambito accademico. La macchina è già in moto, e non c’è più un’unica guida: la NCAA ha perso il suo ruolo centrale, mentre il potere si è spostato nelle mani delle conferenze, degli sponsor, delle leggi statali.
In questo scenario, ogni università cerca di sopravvivere come può. Spesso sacrificando la missione formativa in nome della competitività economica.
Un’identità smarrita: il prezzo nascosto della professionalizzazione universitaria
In superficie, tutto questo potrebbe apparire come un inevitabile adeguamento ai tempi: se l’industria sportiva genera miliardi, perché gli atleti non dovrebbero esserne parte?
Ma c’è una questione più sottile, e più profonda, che questo nuovo modello lascia irrisolta. A cosa serve, oggi, lo sport universitario? Un tempo era un laboratorio di crescita, dove sbagliare non costava un contratto e vincere non voleva dire arricchirsi. Era un sistema che, pur tra mille contraddizioni, riusciva ancora a bilanciare competizione e educazione, ambizione e tutela. La professionalizzazione in corso distrugge quella zona grigia e la sostituisce con una logica binaria: o sei dentro, o sei fuori. O sei un asset, o sei un costo.
Il rischio più grande non è che gli atleti vengano pagati. Quello, ormai, è un fatto. Ma che si cancelli definitivamente la linea che separava l’università dal mercato. E, con essa, anche l’idea che esista un tempo della formazione in cui non tutto debba essere immediatamente monetizzabile. La retorica della meritocrazia, usata spesso per giustificare l’accordo, si scontra qui con la realtà di un sistema che premia non chi merita, ma chi è utile. In nome dell’equità, si è introdotto un modello in cui il valore economico precede qualsiasi altro criterio.
È un passaggio sottile, ma devastante: non è più lo sport a formare gli studenti, ma il denaro a selezionare gli atleti. In questo scenario ogni resistenza sembra anacronistica, ogni nostalgico attaccamento all’ideale di dilettantismo suona ingenuo. Eppure, è proprio in quei principi dimenticati che risiedeva la forza più profonda dello sport universitario: l’idea che ci potesse essere un luogo dove il talento non fosse immediatamente schiavo del mercato. Quel luogo, oggi, non esiste più. È stato sostituito da un laboratorio di élite, dove si addestrano futuri professionisti a colpi di milioni. Ma il costo è altissimo.
Lo pagano gli studenti tagliati, le discipline sacrificate, le università costrette a scegliere tra vocazione e sopravvivenza. Lo paga, in fondo, l’intera idea di sport come veicolo educativo. E, forse, quando la polvere si sarà posata, ci si renderà conto che questa riforma ha finito per svuotare di senso ciò che intendeva salvare. Seppur animata da ragioni nobili.